Dragonomics – Le Campane del merito

In by Simone

L’invenzione occidentale e la “meritocrazia reale” cinese. Un’utopia neoliberista viziata da conservazione familiare e riproduzione della stratificazione sociale. Alla faccia delle pari opportunità

Con il primo articolo del nuovo anno, Dragonomics sconfina nella sfera del politico. Partendo però da un concetto prettamente economico: quello di merito.
Ne hanno parlato già Simone Pieranni – dando conto della “meritocrazia confuciana” ipotizzata da Daniel Bell ed Eric Li come alternativa alla liberaldemocrazia occidentale – e Beniamino Natale, che ha invece affossato l’idea senza appello: ma di che parliamo? La cleptocrazia corrotta di Zhongnanhai (leggi “principini”) vuole insegnarci il merito? (Al che Simone ci è ritornato sopra di per interposta Linkiesta).

È vero, la Cina attuale è distante anni luce da una meritocrazia. Ma d’altra parte crediamo che Bell sia stato ingiustamente (e interessatamente) attaccato da buona parte della stampa anglosassone (in Italia invece, manco a dirlo, il dibattito è circolato esclusivamente su China Files): lui si muoveva nella sfera della teoria politica, non della stretta attualità cinese. Quindi la domanda da porsi non è “la Cina di oggi è una meritocrazia?” (ovvio che no), bensì: “è ipotizzabile un sistema meritocratico-confuciano in alternativa alla liberaldemocrazia occidentale?

Chiariamo immediatamente il nostro punto di partenza: la meritocrazia non esiste. Gli esempi storici spesso scomodati per spiegarla – le grandes écoles francesi, Oxford e Cambridge, il sistema mandarinale degli esami nella Cina classica – sono tutte istituzioni che servono a formare la classe dirigente di un impero: ammissione meritocratica ma formazione amalgamante e livellante, cioè uguale per tutti.
Dopo di che, c’è un altro problema: confuciana o no, un’eventuale meritocrazia sarebbe socialmente “giusta”? In una Cina che sconta una stratificazione sociale record, non crediamo sia un quesito puramente retorico.

Formula matematica
Riponiamo per un secondo Confucio nello scaffale dei classici e volgiamo le nostre attenzioni a Michael Young, il sociologo inglese che nel 1958 inventa il termine “meritocrazia” e le dedica perfino un racconto: L’avvento della meritocrazia: 1870-2033: un saggio su istruzione ed eguaglianza. Nello scritto, compare la famosa equazione “merito = quoziente intellettivo + impegno” (e così tocchiamo anche il tasto economico, il che giustifica l’inserimento di questa dissertazione in Dragonomics).
Quello che non tutti sanno è che il racconto di Young vuole essere satirico, oltre che fantapolitico: mira proprio a metterci in guardia contro l’avvento di una cosa (che non esiste) chiamata “meritocrazia”.
Tutta la prima parte narra di come sia difficile conseguire una meritocrazia “perfetta”, un sistema cioè dove si arrivi al successo solo attraverso il proprio talento sommato al gran lavoro, dopo avere scardinato tutto il sistema dei privilegi ereditari. Nella seconda parte, a utopia finalmente realizzata, scoppia all’improvviso una violenta rivolta proprio contro la meritocrazia.
Ohibò, e perché? Perché il nepotismo si riproduce, il merito diventa in breve privilegio. Non dipende infatti solo dall’arroccamento di un’elite decadente attorno ai propri privilegi, ma dalla propensione naturale a lasciare un’eredità ai propri figli. L’ostacolo maggiore è la famiglia – si legge – “il più fertile vivaio della conservazione”.

Privilegi ereditari
Sospendiamo l’impulso di pensare immediatamente ai principini cinesi e arrendiamoci di fronte all’evidenza: a ogni latitudine è perfettamente “naturale” che un genitore trasmetta ai figli l’impresa di famiglia, la biblioteca da 20mila libri, il conto in banca, i “contatti giusti”, ma questo crea inevitabilmente un privilegio ereditario. È per esempio lapalissiano che la fortuna di crescere in un ambiente familiare ricco di stimoli cognitivi e culturali accresca notevolmente le possibilità di successo a scuola. Questo privilegio potrebbe essere eliminato solo strappando i figli dalle proprie famiglie sin dalla nascita. “Se tutti fossero mandati agli orfanotrofi, tutti godrebbero di uguali opportunità” dicono i fautori della meritocrazia nel racconto di Young. Ma l’idea è immediatamente abbandonata (da quelle parti mancava evidentemente un Pol Pot o qualcosa del genere).

Utopia liberista
Strano destino quello di Young, laburista convinto, perché l’intento del suo racconto viene da subito (volutamente?) frainteso e la meritocrazia diventa il nuovo cavallo di battaglia del liberismo globale; riscuote successo soprattutto negli Usa (forse perché interpreta il “sogno americano”); assume nuovo impeto con l’avvento delle teorie neoliberiste della scuola di Chicago; e riapproda infine nella vecchia Europa, perfino “a sinistra”.
L’ultima immagine del vecchio professor Young è del 2001, quando pochi mesi prima della morte scrive una lettera aperta a Tony Blair per diffidarlo dall’usare il suo nome per propagandare le politiche “meritocratiche” del New Labour. Secondo lui, le più pessimistiche previsioni che aveva formulato nel 1958 si sono già realizzate proprio nella sua Inghilterra: i privilegi delle elite sono ulteriormente aumentati e l’istruzione, lungi da offrire opportunità e garantire mobilità sociale, è ormai diventata uno strumento di riproduzione della diseguaglianza.
Aneddoto curioso: negli anni Sessanta e Settanta, il più grande propagandista dell’ideale meritocratico è il sociologo di Harvard Daniel Bell, teorico della società post-industriale e soprattutto omonimo del politologo canadese che oggi teorizza la meritocrazia confuciana. Bell & Bell, le due “campane” della meritocrazia.

Pari opportunità
Insomma, una cosa che “non può esistere” e che di fatto non è altro che riproduzione della stratificazione sociale, diventa in Occidente l’utopia verso cui tutti dicono di tendere. Per farla digerire, è necessario però un ulteriore passaggio: far sembrare la meritocrazia “giusta”, non così contraria al concetto di eguaglianza di cui siamo imbevuti fin dalla Rivoluzione Francese e poi giù lungo il filo rosso del marxismo. Ci si mettono in tanti, a destra e a sinistra. Qualche ultrà neoliberista arriva a sostenere che perfino il patrimonio genetico (il famoso “talento” che Young nominava come paradosso) sia merito. I più democratici frappongono un “se”: la meritocrazia è giusta se a tutti sono offerte uguali opportunità di partenza, dopo di che ognuno si arrangi. Nasce così la retorica delle “pari opportunità” e viene liquidato il patrimonio ideale del movimento operaio, fondato non sull’uguaglianza delle opportunità, ma su quella dei risultati: “a ciascuno in parti uguali”.

Giustizia redistributiva
Nel 1971, il più famoso teorico del contrattualismo contemporaneo, John Rawls, per nulla convinto dalle “pari opportunità di partenza”, cerca di superare questo escamotage meritocratico nel suo famosissimo Una teoria della giustizia. Secondo lui c’è poco da fare: la “lotteria sociale” che permette ad alcuni di avere più opportunità alla nascita rispetto ad altri è ineliminabile e, anzi, può offrire maggiore efficienza alla società presa nel suo complesso. In una società giusta – sostiene – è perfettamente legittimo che il talento emerga, sia riconosciuto e premiato. A patto però che vada a beneficio dell’intera collettività, inclusi gli individui meno dotati. Attenzione: non è l’elemosina dei ricchi verso i poveri, degli efficienti verso gli inefficienti, dei talentuosi verso i mediocri. È lo stesso “contratto sociale” che consente ai primi di emergere. Inutile dirlo, Rawls si becca le critiche degli ultraliberisti (Nozick e Friedman) e nel 1999 è costretto ad ammettere ciò che Young aveva già intuito nel 1958: i meccanismi di ereditarietà sociale (come lo stimolante ambiente familiare e la disponibilità economica) sono praticamente impossibili da sradicare quasi quanto quelli genetici (il quoziente intellettivo), a meno che non sacrifichiamo diritti individuali e libertà fondamentali all’uguaglianza perfetta. Cosa che francamente non si vede all’orizzonte, sia nell’Occidente “liberal” sia nella Cina formalmente comunista. E che probabilmente non è neppure auspicabile.

Meritocrazia confuciana
Ed ecco che oggi, di fronte a questo scacco continuo della meritocrazia impossibile (ma sbandierata), saltano fuori i cinesi “demaoizzati” e ci dicono: ma come? Volete la meritocrazia? Ma che diamine, ve la insegna Confucio, cioè noi. Sia Daniel Bell sia Bai Tongdong, entrambi docenti confuciani, ci hanno spiegato del resto che per la cultura profonda cinese è naturale accettare una gerarchia e diverse opportunità di partenza. L’importante è che chi sta in alto, imperatore o funzionario che sia, si adoperi per il bene di tutti. Se non lo fa, zac!, è legittimo tagliargli la testa. Rawls rientra dalla finestra con una tunica confuciana, insomma. La mania egualitarista, la ricerca di pari opportunità, è roba nostra. Per loro, è importante che il sistema funzioni, sia efficiente e ridistribuisca la ricchezza acquisita grazie al merito. Come dice Beniamino Natale, “non si chiedono ‘cos’è questo?’ ma ‘come posso farlo?’”.
Può funzionare? Forse sì a livello teorico, più in Cina che in Occidente. Sono loro i veri meritocratici ed è comunque interessante, pur con occhio scettico, vedere come va a finire.
Resta da capire – non in nome della giustizia, ma dell’efficienza – come eliminare i principini: come impedire cioè che genitori talentuosi trasmettano privilegi a figli imbecilli, quelli che, giusto per intenderci, si stampano in Ferrari contro i ponti (non si può sperare che si autoeliminino tutti nello stesso modo). E su questo Beniamino ha ragione.

La prossima volta si riparla di attualità economica, promesso.