Covid-19: la Cina torna a respirare, ma per quanto?

In Cina, Economia, Politica e Società by Gian Luca Atzori

La PM2.5 è una particella frutto della combustione considerata  la principale causa di morte legata all’inquinamento dell’aria. Basandosi sui dati satellitari della Nasa e sulle concentrazioni di PM2.5 in quattro principali città cinesi, il ricercatore della Stanford University ed esperto di economia ambientale Marshall Burke, ha calcolato che il calo delle emissioni dovuto alla quarantena potrebbe salvare le vite di 4,000 bambini sotto i 5 anni e di circa 73,000 over-70 nella sola Cina.

“La riduzione dell’inquinamento dell’aria generato dal blocco economico” scrive Burke su G-Feed – portale gestito da scienziati impegnati in ricerche socio-ecologiche – “potrebbe aver salvato oltre 20 volte le vite perdute in Cina a causa dell’infezione”. L’inquinamento uccide ogni anno circa 9 milioni di persone – di cui 800 mila in Europa – un dato in continua crescita e due volte superiore al numero di vittime causate dal vizio del fumo. Attraverso la comparazione statistica con i dati dell’anno scorso, si calcola che il lockdown abbia risparmiato alla Terra circa 200 milioni di tonnellate di diossido di carbonio.

Non è dunque un caso se la natura torna a respirare, i delfini riappaiono nei porti del Mediterraneo e le lepri affollano le città. Le emissioni cinesi sono calate di un quarto, e forti arretramenti vengono registrati anche nel Nord Italia dall’Esa, in particolare per via della chiusura dei trasporti, alla base del 70% delle emissioni nocive del capoluogo lombardo. Tuttavia, mentre Milano scala posizioni tra le capitali più inquinate d’Europa, da qualche tempo, Pechino non è più presente nella classifica delle 100 città più inquinate in Asia. Burke ha notato come già dalle Olimpiadi del 2008 le nuove e più severe regolamentazioni del governo cinese abbiano evitato numerose morti premature dovute a complicazioni cardiache o polmonari.

Secondo i dati, la mortalità mensile dei bambini sotto i 5 anni cresce del 2,9% per ogni aumento di 1 microgrammo per metro cubo di PM2.5, mentre per gli over-70 la percentuale incrementa del 1,4%. Nei primi due mesi del 2020, nelle città di Pechino, Shanghai, Chengdu e Guangzhou è stata registrata una riduzione media giornaliera di PM2.5 di circa 15-17 mg/m3 rispetto ai quattro anni precedenti. Tuttavia, lo scienziato di Stanford ha preferito arrotondare per difetto a 10 mg/m3, al fine di non sovrastimare l’impatto positivo, il quale potrebbe essere dunque molto maggiore.

Inoltre, nella situazione attuale, una faccia della medaglia fa supporre che le stime di vite salvate siano destinate a crescere visto anche l’estendersi del lockdown in altri zone ad alte emissioni, come il nord Italia, il nord Europa e gli Stati Uniti. Purtroppo, l’altra faccia vede un’Europa titubante, un Presidente americano scettico nei confronti dei cambiamenti climatici e una Cina pronta a riaprire i battenti con un piano di rinascita da 6,5 mila miliardi di euro, di cui il 15% destinato alle fonti fossili e al carbone.

Pechino rimane primo investitore al mondo in energie rinnovabili ma le perplessità suscitate dagli ambientalisti non riguardano tanto i progetti fossili già programmati dal governo prima della pandemia, quanto l’intenzione di volerne avviare di nuovi. Nelle aree del nord già ricche di miniere come lo Shanxi,  quest’anno sono stati approvati altri nove impianti a carbone, mentre nella regione confinante dello Shaanxi ne verranno costruiti otto dalla capacità complessiva di 6,640 Mw.

Nonostante questi ultimi andranno ad alimentare la griglia ad alto voltaggio che unirà il nord del paese con Wuhan, per gli scienziati la situazione resta critica. Se la Cina dovesse aumentare le emissioni prima del 2035, l’obiettivo globale di “non superamento della soglia di non ritorno di 2°C” sarebbe ancora più lontano”, mentre gli effetti dell’inquinamento diverrebbero empre più devastanti e irreversibili.

Le analisi pubblicate su G-Feed si uniscono dunque alla lunga serie di ricerche che mostrano come la distruzione degli ecosistemi e l’impatto dell’uomo sulla natura e la vita animale siano alla base delle principali problematiche sociali e sanitarie attuali: dalla crescente diffusione di patologie letali fino all’emergere di nuove pericolose pandemie zoonotichedall’aumento delle diseguaglianze economiche fino alla depressione e il rischio suicidio, un fatto quest’ultimo ancora più esacerbato dall’isolamento forzato nei contesti altamente urbanizzati.

In un’ottica di resilienza socio-ecologica non sarà possibile tornare alla tanto attesa, nostalgica e ideale condizione di “equilibrio iniziale” pre-Covid. Per questo, come anche affermato da Burke, le problematiche socio-economiche al quale andiamo incontro, qualora non affrontate con forti contromisure e importanti cambiamenti strutturali, potrebbero vanificare tutti i benefici evidenziati dalla ricerca. Ma tornare senza correzioni a una “normalità” tanto disastrosa rischia di essere un errore molto grave.

[Pubblicato su La Stampa]