Gli Stati Uniti hanno deciso di imporre dazi alle importazioni di pannelli solari prodotti in Cina, mettendo a rischio il mercato del solare e rilanciando chi produce energia fossile. Un insider ci spiega perché si è arrivati a questo punto. Il 17 maggio scorso il Dipartimento di Stato americano ha deciso di imporre dazi alle importazioni di pannelli solari prodotti in Cina. La ragione: la Cina inonda di sussidi i propri produttori che possono mettere sul mercato i pannelli a prezzi stracciati, causando la crisi della produzione americana.
Gli Stati Uniti hanno dichiarato che imporranno tariffe di circa il 31% su sessanta esportatori cinesi di pannelli solari accusati di dumping, tra cui Wuxi Suntech e Trina Solar. Altri produttori si troveranno ad affrontare tariffe di poco inferiori al 250%. Gli Usa difendono i loro prodotti, ma in realtà, secondo molti analisti di settore, la decisione porterà ad effetti negativi per tutti. Aumenteranno i costi, retrocederà l’industria del solare, a vantaggio di chi ancora campa di energia fossile. La nuova “guerra solare” ha origini lontane.
C’è un problema di fondo, di natura storica, collegato al protocollo di Kyoto e all’obiettivo delle riduzioni di CO2: i sussidi infatti non sono stati solo cinesi, ma vedono anche un impegno molto forte dell’Unione Europea.
Una situazione che ha costituito un vantaggio sia per le aziende occidentali che potevano andare a produrre a basso costo in Cina, sia per i cinesi che hanno usufruito di una spinta tale da renderli leader al mondo. Le aziende Usa sono rimaste al palo. Non tutte: la richiesta di dazi nasce infatti dalla spinta di un consorzio di produttori americani che ha mantenuto la produzione in casa.
Quelli che hanno scelto la Cina, non sono per niente soddisfatti della decisione del governo. La questione, quindi, ha responsabilità varie: intanto – come sottolinea un insider, un professionista dell’energia con esperienza decennale in Cina, “è vero che oggi la Cina è il paese che emette più gas serra al mondo in termini assoluti, ma se valutiamo le stime pro capite, un cinese impatta la metà di un europeo ed un quarto di uno statunitense. Aggiungiamo il fatto che noi inquiniamo da 150 anni, mentre Cina (come India e Brasile) hanno iniziato solo da una decina di anni. Sarebbe quindi scorretto imporre alla Cina di prendere misure a loro costo per la riduzione delle emissioni”.
Questo è il punto di partenza, per il quale il protocollo di Kyoto stabilì uno schema che pareva convenire a tutti. Da un lato riconoscere un valore economico alla riduzione di emissioni di CO2 dall’altro dare vita a schemi di incentivi economici nazionali in Europa che premiano le fonti non fossili. Da questo “schema” è derivata una domanda crescente di impianti che per motivi di bassi costi, si trovano quasi tutti in Cina.
Questo ha significato flussi economici verso il Celeste Impero: si tratta di “flussi che al momento sono sostenuti dagli imprenditori e dai cittadini che scelgono di installare i pannelli, ma che nel lungo periodo verranno sostenuti dalla cittadinanza attraverso le tasse che andranno a ripagare le tariffe dei vari schemi nazionali”.
Il protocollo di Kyoto – infatti – prevede che i paesi con impegni di riduzione di emissione possano raggiungere tale obiettivo anche attraverso la sponsorizzazione di progetti all’estero, specie nei “paesi in via di sviluppo” come è considerata ancora oggi la Cina. "Ovvero quei paesi che hanno ratificato il protocollo di Kyoto, ma che non hanno ancora impegni di riduzione”.
Per questo, di fatto, l’impegno grava sui paesi europei, in gran parte (e le compagnie europee) ma parte di essa viene attuata attraverso progetti in paesi in via di sviluppo. “Questo – sostiene il nostro insider – soddisfa una logica di win win, da un lato, a causa del mix di produzione energetico fortemente a base di carbone come avviene in Cina, dall’altro è economicamente ed ambientalmente più efficiente per ridurre le emissioni in Cina”.
Win win soprattutto per i cinesi, la cui praticità e abilità commerciale emerge anche dalla questione solare: “attraverso la sponsorizzazione di progetti da parte dei paesi europei in Cina, si rende possibile lo sviluppo di fonti rinnovabili in Cina, il che porta nel medio lungo periodo a raggiungere una massa critica tale da comportare un abbassamento dei costi di produzione di tali tecnologie, che saranno quindi una valida opzione di investimento per i produttori energetici cinesi”.
Nella pratica significa una cosa: grazie agli incentivi europei – e locali – nel medio lungo periodo i cinesi potranno godere di fonti rinnovabili più economiche, rispetto a tutto il resto del mondo. Con buona pace degli Usa, che infatti ora provano a invertire la tendenza, mettendo però a rischio l’intero mercato del solare.
[Scritto per Il Fatto Quotidiano]