Come funziona il modello cinese delle nazionalizzazioni

In Cina, Economia, Politica e Società by Cecilia Attanasio Ghezzi

Cinque delle 10 più grandi aziende del mondo della classifica Forbes sono cinesi, e sono aziende di Stato: banche per la precisione. Ma non è tutto oro quello che luccica. La ristrutturazione delle nazionalizzazioni, nate negli Anni 50 assieme alla Repubblica popolare, è da 30 anni il tallone di Achille della seconda economia mondiale. Nella maggior parte dei casi sono aziende inefficienti e datate. E sopravvivono solo grazie al credito delle banche, peraltro anch’esse controllate dallo Stato, con il tacito patto che il governo non permetterà loro di fallire. È da quando si è passati dall’economia pianificata a quella di mercato «con caratteristiche cinesi» che la politica cerca di affrontare il problema senza riuscire a venirne a capo. Molti rispettabilissimi economisti e funzionari di Partito si erano illusi che, con la quotazione in Borsa, le decisioni dei consigli di amministrazione avrebbero pesato più dei calcoli politici, ma non è andata così. L’ultima parola rimane quella del Partito, in ogni caso azionista di maggioranza, che non ha fatto altro che provare a ridurre di numero le aziende.

RIDURRE IL NUMERO DELLE AZIENDE DI STATO

All’inizio degli Anni 90, le aziende di Stato erano 113 mila e con i loro debiti avevano portato il sistema bancario sull’orlo del collasso. Con la spinta verso «l’economia di mercato socialista» si sono dimezzate fino ad arrivare, secondo Morgan Stanley, a circa 20 mila. I posti di lavoro che offrivano, la cosiddetta «ciotola di riso di ferro», sono passati da 141 milioni nel 1993 a 70 milioni nel 1997, fino ad arrivare a 37 milioni nel 2005. Ma con la crisi finanziaria globale del 2008 c’è stata un’inversione di tendenza. Alle banche fu ordinato di ricominciare a prestare e l’intera operazione del ridimensionamento del settore ebbe un brusco arresto. Il massiccio pacchetto di stimoli deciso dal governo per fronteggiare il rallentamento dell’economia faceva affidamento proprio sulle aziende di stato a cui veniva chiesto di investire e produrre nell’interesse nazionale senza curarsi delle logiche di mercato. Si scongiurò la crisi, ma a caro prezzo. Nel 2013, il 43% delle aziende di Stato era in perdita e le banche e i governi locali così indebitati da frenare ulteriori prestiti. Oggi, con il rallentamento della crescita, la situazione è più grave che mai..

Secondo i dati raccolti da Bloomberg, nel 2015 le aziende di Stato hanno avuto in media una redditività del 2,8% contro il 10,6 di quelle private. E i loro utili continuano a diminuire. Il loro capitale complessivo, però, è grossomodo pari all’intera economia giapponese (3.700 miliardi di euro). Più in generale rappresentano il 40% dell’attività industriale del Paese e occupano il 18% della popolazione in età da lavoro. Finora nessuna teoria è stata così forte da portare alla rinuncia di una leva tanto potente per manovrare l’economia e nessun politico è stato disposto a mettere veramente a rischio milioni di posti di lavoro senza un’alternativa all’orizzonte. Anzi, recentemente i vertici della politica cinese si sono convinti a rafforzare tramite fusioni le aziende di Stato già esistenti. L’idea nasce dall’ossessione del Partito per l’economia di scala e la consapevolezza che aziende di Stato più grandi possano competere meglio a livello globale.

LA NUOVA FRONTIERA DELLE MULTINAZIONALI DI STATO

Negli ultimi anni, ci sono state almeno sei grandi fusioni. Alla fine del 2014, prima di lanciarsi alla conquista del West lungo la nuova Via della seta, le due principali aziende che costruivano ferrovie si sono fuse tra loro per creare un gigante da 120 miliardi di euro. Altre fusioni hanno coinvolto aziende leader nei settori cardine dell’energia, dell’agricoltura, della manifattura, delle grandi navi container e dei macchinari. Le acciaierie Baosteel e Wuhan Steel si sono fuse per dare vita a un colosso da oltre 99 miliardi di euro che è secondo solo alla multinazionale ArcelorMittal.Secondo recenti indiscrezioni, inoltre, starebbero per fondersi ancheSinoChem e ChemChina: diventerebbero un’unica azienda da oltre 90 miliardi di euro nel settore della petrolchimica. A ChemChina, per intendersi, fanno ormai capo la svizzera Sygenta e l’italiana Pirelli. Oggi la Sasac, Commissione per l’amministrazione e la supervisione delle aziende di Stato considerate asset del Paese, controlla 104 società, per un totale patrimoniale di più di 900 miliardi di euro, poco meno dela metà del Prodotto interno lordo italiano. La volontà del governo è quella di arrivare a 80 gigantesche aziende entro il 2020 capaci di “competere” sul mercato globale. Forse la nuova frontiera è proprio quella delle multinazionali di Stato.

di Cecilia Attanasio Ghezzi

[Pubblicato su Lettera 43]