Come decifrare la propaganda cinese sull’India

In by Gabriele Battaglia

Un editoriale pubblicato dal Global Times critica duramente i sogni di espansione indiani, considerati aspirazione anticinese. Gli elementi dell’articolo danno l’opportunità di analizzare le tecniche utilizzate dalla propaganda cinese moderna: appoggiarsi alla verità per attaccare il "nemico", offrendo un aiuto "inevitabile".
La propaganda cinese, per chi la segue come filone letterario, alterna momenti di irrealismo grottesco – memorabili, durante i moti di protesta in Tibet nel 2011, le felicitazioni estese dal Partito alla popolazione di Lhasa che si era classificata al primo posto del sondaggio governativo "Qual è la città più felice della Repubblica popolare cinese?" – a stilettate di un’acidità rara nell’ambiente del soft power mondiale. Ancor più acide, come nel caso che andremo ad analizzare, se si fondano su una sostanziale verità di partenza.

Tre giorni fa il Global Times, organo della propaganda cinese in lingua inglese, ha pubblicato un editoriale di Liu Zongyi, ricercatore presso la Renmin Daxue (Università del Popolo) di Pechino, dal titolo Beijing offers manufacturing lesson to Delhi.

Il pezzo è composto da tutti gli elementi che rendono la propaganda cinese – o meglio, la decifrazione del messaggio della propaganda cinese – un mezzo comunicativo fondamentale per comprendere a pieno cosa si muove e come si muove la geopolitica internazionale:

1. Analisi iniziale (parziale) di un fatto "oggettivo", di un problema che qualcuno ha, ma non Pechino.
2. Riconoscimento di sforzi da parte dell’oggetto della critica, si prende atto di un tentativo (fallimentare) di risolvere il problema.
3. Spiegazione del perché Pechino non ha quel problema.
4. Spiegazione del perchè l’oggetto della crititca dovrebbe accettare l’aiuto (inevitabile) di Pechino.
5. Offerta dell’aiuto con implicita minaccia del "se non lo accetti, finisci schiacciato".

Oggetto dell’interesse di Liu è la campagna Make in India, il programma di attrazione di investimenti stranieri varato da Narendra Modi per rilanciare l’economia indiana. Nelle intenzioni di Modi – esaltate da gran parte della stampa internazionale, specie anglosassone – la campagna Make in India dovrebbe essere l’arma di Delhi per cominciare la rincorsa al gigante cinese. Ovvero, scalzare Pechino dalla guida del nuovo sistema geopolitico asiatico, levando alleati, fondi e terreno da sotto i piedi del Grande Nemico asiatico, sostituendo l’espansionismo economico cinese con uno indiano percepito – più che altro, immaginato – come meno minaccioso rispetto agli interessi occidentali.

L’analisi di Liu, seppur volutamente parziale, evidenzia con precisione i principali ostacoli che dividono la speranza di scavalcare la Cina dalla effettiva possibilità di farlo. In punti:

l’India vanta un mercato manifatturiero risibile, 15 per cento del Pil secondo Liu. E siccome la qualità delle – poche – cose che produce è scarsa, è costretta a importare, appesantendo la bilancia commerciale sul piatto dell’import.

l’India è cresciuta ma non ha creato abbastanza posti di lavoro: ogni anno ci sono 12 milioni di indiani pronti ad entrare nel mercato del lavoro ma non esistono posti di lavoro che possano assorbirli; l’industria dell’Information Technology (sulla quale l’India del boom aveva scommesso moltissimo), ha creato solo due milioni di posti di lavoro (più dettagli sulla "crescita mancata" qui).

Questi due ostacoli, secondo Liu – diciamo per "deformazione professionale" o per "aziendalismo" rispetto al Pcc – sono determinati dall’assetto democratico che governa l’India. Cioè, siccome ogni cosa che decidete di fare la dovete votare (votare tra l’altro in un sistema federale dove il grado di autonomia statale è piuttosto alto), le misure che Modi ha potuto e saputo adottare in Gujarat difficilmente riusciranno a passare nel resto del paese.

[Nota: il fatto che il modello ultracapitalista del Gujarat (sintetizzato: via lacci e lacciuoli burocratici, via leggi a tutela di contadini, lavoratori e sicurezza ambientale, tappeti rossi per chi viene a investire) sia considerato un esempio virtuoso da uno degli organi di propaganda cinese dovrebbe fare suonare una sinfonia di campanelli d’allarme per tutti gli osservatori dell’India / i fan di Modi.]

Ciò, sempre secondo Liu, porterebbe a una conseguenza inevitabile: se l’India vuole crescere, stando le cose come stanno oggi, non può che farlo "all’ombra" di Pechino, lavorando con la Cina al posto che tentare di sedurre presunti partner avversi a Pechino (come gli Usa, citati esplicitamente nel pezzo). Usando le parole di Liu:

Una catena di produzione asiatica che ha come centro la Cina e che è in sintonia con la struttura finanziaria della regione esiste già. Questa catena si può di certo allargare, ma difficilmente potrà essere sostituita da una nuova. Se New Delhi si dimostrasse riluttante nel far parte di questa catena, è improbabile che possa diventare una potenza del manifatturiero.

Al netto del carico della propaganda, l’analisi messa nero su bianco da Liu contiene molti nodi irrisolti della crescita indiana (ha risparmiato, forse per motivi di spazio, la fame di energia elettrica dell’India, che si ritrova con tanta voglia di crescere ma – in metafora – senza il carburante per far andare avanti la locomotiva). Le parole di Liu appaiono platealmente un relata refero, sono le cose che Pechino vuole si sappiano in giro in un periodo storico in cui la sovraesposizione di Modi come campione del capitalismo "buono" made in India inizia ad avere un certo appeal – superficiale – nel giro degli opinion maker mondiali (stampa anglosassone in primis).

Per avere un po’ più sotto controllo quello che si sta muovendo da queste parti, il consiglio è – di tanto in tanto – andare a leggersi anche "l’altra campana". Che in mezzo alle sparate propagandistiche qualche segnale di realismo lo dà, sempre.

[Scritto per East online; foto credit: etsystatic.com]