Cina, minatori del nord-est

In by Gabriele Battaglia

I lavoratori della miniera di Shuangyashan, in Heilongjiang, protestano contro salari non corrisposti o decurtati ma, soprattutto, per le incertezze legate al grande piano di ristrutturazione dell’industria pesante (e di Stato) cinese: si prevedono cinque-sei milioni di esuberi per cui il governo di Pechino ha stanziato cento miliardi di yuan. Banale scrivere «anche le formiche, nel loro piccolo, si incazzano», ma intanto l’abbiamo scritto. Fatto sta che dallo scorso weekend migliaia di minatori della provincia dell’Heilongjiang, nel nordest della Cina, sono scesi in strada per protestare contro il mancato pagamento degli stipendi da parte dell’amministrazione della miniera di Shuangyashan. Il gruppo Longmay, proprietario del giacimento minerario, impiega 224mila persone ed è controllato dal governo provinciale. Da mesi sta trattenendo buste paga o erogando pagamenti parziali. Alcuni lavoratori lamentano che il loro salario è stato decurtato del venti per cento. Gli slogan più gettonati erano «i lavoratori hanno bisogno di cibo» e «abbasso i criminali corrotti», il che rivela un sentire diffuso rispetto ai funzionari locali.

Alla protesta sul bisogno immediato, si aggiunge il malessere che sorge guardando al futuro. La Longmay è in perdita dal 2012 e, per rimanere a galla, il governo dell’Heilongjiang sta supplicando le banche affinché forniscano nuove linee credito. Il governatore provinciale Lu Hao ha detto che il gruppo prevede di licenziare 50mila lavoratori nei prossimi due o tre anni. Secondo i piani aziendali divulgati l’anno scorso, i lavoratori di Shuangyashan potrebbero però scendere sotto quota centomila, in quella che la stessa direzione ha definito «un’atmosfera lavorativa di guerra».
Ai nostri occhi sono numeri enormi, ma del tutto in linea col progetto di ristrutturazione economica che interesserà le cosiddette «imprese zombie»: attività produttive inefficienti che sopravvivono grazie ai sussidi statali. Si tratta soprattutto di carbone, cemento, acciaio. Minatori e operai, appunto.

A Shuangyashan, lunedì la situazione sembrava tornata alla calma dopo che la polizia è intervenuta in massa. Testimonianze locali parlano di manifestanti arrestati e portati via dalle forze di sicurezza. «Repression with concession» è la strategia che di solito applicano le autorità in questo caso: si cerca di mediare e intanto si portano via i responsabili degli «incidenti». Osservata la repression, resta adesso da capire quale sia la concession.

Nello stesso week-end in cui i minatori del Dongbei (nord-est) cinese sono insorti, Xiao Yaqing, il capo della authority che gestisce le proprietà dello Stato, ha promesso a margine del Lianghui che il piano di dismissione dell’industria pesante di Stato prossimo venturo non assomiglierà all’ecatombe di fine anni Novanta, quando la ristrutturazione determinò il licenziamento di 28 milioni di lavoratori. Nel prossimo giro di ristrutturazioni si prevede che saranno «solo» 5-6 milioni, dice Xiao, secondo cui la struttura economica della Cina è oggi molto più forte e i cambiamenti avverranno mettendo sempre più in primo piano gli interessi dei lavoratori. Le imprese di Stato, in Cina, sono circa 150mila.

Il premier Li Keqiang, dal canto suo, ha detto che il governo istituirà un fondo speciale di 100 miliardi di yuan (quasi 14 miliardi di euro) per facilitare il processo di ristrutturazioni e dismissioni in tutta la Cina e, a quanto pare, i quadri locali stanno già scannandosi per ritagliarsi una fetta della torta. Le loro possibilità di carriera dipendono infatti dalla crescita del Pil nella loro area di competenza e dalla capacità dimostrata nel contenere i disordini sociali. I soldi che arrivano da Pechino sono quasi ragione di vita o di morte. Secondo dati diffusi dalla televisione di Stato, il tasso di disoccupazione a livello nazionale è stato del 5,1 per cento nel primo bimestre dell’anno, un leggero calo di 0,05 punti percentuali rispetto allo stesso periodo di un anno prima. L’industria rappresenta ormai una percentuale inferiore ai servizi nella composizione del Pil cinese, il che lascerebbe intendere che la tanto sospirata transizione verso un’economia «evoluta» è in corso. Ma la transizione è anche dolorosa.

Il governatore della provincia ha spiegato che i licenziamenti saranno seguiti da un piano di ricollocazioni nel settore agricolo. Aree coperte da foreste sono già state convertite all’agricoltura e questa soluzione cuscinetto dovrebbe dare impiego a parte degli «esuberi», i lavoratori che non sono riciclabili per un mercato del lavoro più evoluto. Tuttavia, Lu Hao si augura soprattutto che si avvii un processo di riqualificazione professionale che possa creare nuove professionalità e occasioni di impiego. A differenza di un’altra cintura industriale, quella della piccola-media industria sul delta del fiume delle Perle, il nord-est cinese, in sofferenza da tempo, è ancora popolata da comunità operaie legate all’industria pesante di tipo sovietico, retaggio dell’epoca di Mao. Dopo la dolorosissima ristrutturazione degli anni Novanta, quella in arrivo – e già in corso – potrebbe essere la mazzata finale. Per il governo cinese si tratta quindi di accompagnare i lavoratori anziani alla pensione, creando al tempo stesso opportunità per i più giovani. Intanto, li si manda in campagna.