Cina e Kirghizistan

In Uncategorized by Simone

Profonda preoccupazione. È stata affidata ad una nota del ministero degli Esteri la prima reazione del governo di Pechino alla rivolta popolare che il 7 aprile ha portato alla destituzione del presidente kirghizo Kurmanbek Bakiyev.

Dai palazzi di Zhongnanhai la dirigenza cinese guarda con apprensione all’evolversi della situazione nella confinante repubblica centroasiatica, pur avendo deciso di mantenere una posizione di non interferenza, nella speranza di mantenere “i tradizionali rapporti di buon vicinato” con il governo di Bishkek. Il Kirghizistan è uno dei paesi chiave nell’approccio di Pechino all’Asia Centrale.

Dopo la Russia e il Kazakistan è il terzo partner commerciale della Cina tra i paesi della Comunità degli Stati indipendenti (CSI). Un volume d’affari che nel 2008 ha raggiunto i 9,3 miliardi di euro, ha scritto il quotidiano ufficiale in lingua inglese China Daily, comparando la cifra con i 355 milioni del 1992, l’anno in cui Pechino e Bishkek stabilirono le prime relazioni diplomatiche dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

Ma con gli scambi cresce anche il risentimento e la xenofobia contro i 30mila (100mila secondo le stime non ufficiali) cinesi immigrati nel Paese. Una situazione difficile per i lavoratori e gli imprenditori provenienti dal Regno di mezzo, ben esemplificata dall’attacco contro un centro commerciale cinese, dato alle fiamme durante le violente manifestazioni che hanno portato alla cacciata di Bakiyev. Un deja vù di quanto successo nel 2005 ai tempi della Rivoluzione dei tulipani.

Le apprensioni del regime comunista non sono soltanto di semplice carattere economico. Pechino “teme il ripetersi delle rivoluzioni colorate” e la possibile richiesta di diritti politici, ha scritto Niklas Swanström del Central Asia-Caucasus Institute (Cacianalyst) della Johns Hopkins University.

Paure che riguardano in particolare lo Xinjiang, l’estrema provincia occidentale della Repubblica popolare situata proprio al confine con il Kirghizistan e teatro lo scorso luglio di violenti scontri interetnici tra cinesi “han” e uighuri, che hanno causato la morte di quasi 200 persone. L’instabilità nel Paese centroasiatico, dove vivono tra i 50mila e 250mila uighuri, potrebbe fomentare le frange più radicali della comunità in funzione cinese, o almeno così teme la dirigenza di Pechino.

Una recrudescenza della violenza che, ha scritto il China Brief della Jamestown Fountadion, rischia di mettere a rischio le infrastrutture della Repubblica popolare, che dall’Asia Centrale si estendono sino allo Xinjiang, e il volume di affari, 2,9 milioni di dollari, tra la provincia e il Kirghizistan. A turbare la leadership cinese sono infine le posizioni filo-statunitensi della leader dell’opposizione, ora a capo del governo ad interim di Bishkek, Roza Otunbayeva.

Pechino,ha scritto Cacianalyst, è timorosa verso un eventuale cambio nella politica estera della repubblica ex sovietica e un suo appoggio alla presenza americana in Asia Centrale. Un sfida diplomatica che vede nella Russia un terzo attore difficile da escludere. “La posizione strategica del Kirghizistan provoca una lotta tra le grandi potenze per arrivare a un punto di equilibrio” ha affermato al China Daily Dong Mayaun, esperto anti-terrorismo dell’Istituto cinese per gli studi internazionali. La priorità del nuovo governo kirghizo sarà fronteggiare la crisi economica che attanaglia il Paese e solo dopo molto tempo si parlerà di basi e questioni militari. Perciò, ha spiegato il diplomatico indiano M K Bhadrakumar dalle colonne del quotidiano online Asia Times, l’approccio interventista di Russia e Usa per stabilizzare il Paese potrebbe anche giovare alla Cina.

[Anche su Interprete Internazionale foto da csmonitor.com]