Cina – Cooking the books

In by Gabriele Battaglia

Si sapeva già, non è una notizia, ma con il rapporto del premier Li Keqiang al Congresso Nazionale del Popolo si è messo nero su bianco quel 6,5 per cento che è l’obiettivo di crescita prestabilito per i prossimi cinque anni. Ne parliamo con il professor Zhu Ning, vice rettore dello Shanghai Advanced Institute of Finance. «La ragione per cui è stato indicato l’obiettivo del 6,5 per cento nei prossimi cinque anni è palese. Se la Cina deve raddoppiare il proprio Pil procapite entro il 2020 – come promesso – quello è il tasso di crescita necessario. Basta fare i calcoli aritmetici».
Per il professor Zhu Ning, vice rettore allo Shanghai Advanced Institute of Finance, professore a Yale e alla University of California e con un passato a Lehman Brothers e Nomura Securities, i numeri snocciolati dal premier cinese Li Keqiang al Congresso Nazionale del Popolo sono dunque una profezia che si auto avvera.
Ma il punto è: tale obiettivo è raggiungibile? I risultati del 2015 (più 6,9 per cento) sono stati accolti con molto scetticismo un po’ ovunque. Il che pone il problema dell’attendibilità dei dati cinesi.

«Guardando ai numeri, si possono osservare diverse contraddizioni da anni», dice Zhu. «La prima consiste nel fatto che quelli forniti dal governo centrale e quelli forniti dei governi locali non coincidono. La seconda sta nel confronto tra i dati relativi a diversi settori dell’economia, per esempio trasporti e commercio: sono incoerenti. La terza riguarda debito interno e debito estero. Per esempio, nell’aprile 2013 si registrò un improvviso picco dell’export che non combaciava con i dati delle importazioni dei Paesi dove la Cina avrebbe spedito le sue merci. Il commercio Cina-Hong Kong aumenta addirittura del 55 per cento in un mese. Se si escludesse Hong Kong, quel mese la Cina avrebbe auto un deficit di venti miliardi di dollari invece che un surplus di diciotto miliardi».

Come si «cucinano i libri contabili»?
«Per capirlo, bisogna fare ricerca sul campo», risponde il professore. «Prendiamo per esempio il Pil delle province. Da quello che ne so, i funzionari locali stanno diventando sempre più sofisticati. Hanno capito che il Pil e il consumo di energia sono interconnessi. Ebbene, hanno imposto agli uffici pubblici e ai centri commerciali di tenere sempre le luci accese, ed ecco il Pil che cresce. Perché? Ma è ovvio, se cresce il Pil tu hai più possibilità di fare carriera. C’è uno studio molto interessante di un professore di Singapore, secondo cui se il Pil della zona di tua competenza cresce dell’uno per cento, le tue chance di essere promosso aumentano dello 0,8 per cento. In questo contesto è molto difficile stabilire quali numeri siano attendibili. Lo stesso governo cinese ha ammesso che le cifre diffuse ai tempi della crisi delle Tigri Asiatiche, nel 1998, erano sbagliate».

A questo punto, c’è da dubitare perfino che la tanto sospirata transizione cinese verso consumi e servizi sia un fatto reale.
«Io credo davvero che l’economia si stia spostando verso consumi interni e servizi – spiega Zhu – tuttavia, immaginiamo per un secondo che queste due voci non stiano crescendo molto. Ebbene, in base a un fatto semplicemente aritmetico, aumentano comunque la propria percentuale del Pil a causa della contrazione dell’industria pesante, è semplice. Prendiamo un altro esempio strettamente connesso alla crescita di consumi e servizi: l’urbanizzazione. Allora, si dice che la Cina stia urbanizzandosi e che la gente si trasferisca sempre più in città. Un amico studioso di questo fenomeno mi ha fatto notare qualcosa a cui non avevo mai pensato: anche se non sposti una sola persona dalla campagna alla città, l’urbanizzazione aumenta. Perché? Perché la popolazione urbana vive di gran lunga più di quella rurale».

I dati sulla crescita del Pil cinese lasciano dunque il tempo che trovano. Del resto, quando era segretario del Partito nel Liaoning, lo stesso premier elaborò il Keqiang zhishu, «indice Li Keqiang», che per determinare la crescita combina tre altri indicatori: il volume di carico ferroviario, il consumo di elettricità e i finanziamenti erogati dalle banche.
Funziona?

«Sicuramente rappresenta meglio ciò che succede nell’economia reale, ma alcuni segnali ci ammoniscono rispetto a un settore che l’indice Li Keqiang non riesce a inquadrare: qual è lo stato di salute della new economy cinese? Certo, nascono sempre più piccole start-up, ma ho ragione di credere che i giganti come Alibaba e Tencent stiano attraversando qualche difficoltà. Per esempio Alibaba sta facendo tantissimi investimenti, anche al di fuori del suo settore di competenza, e alcuni si sono accorti che è la stessa strategia messa in atto da Yahoo e America Online subito prima che scoppiasse la bolla della new economy nel 2000. Insomma, l’indice Li Keqiang rappresenta bene la old economy, ma c’è dell’altro che gli sfugge».

Dunque, paradossalmente, se i dati sono sempre stati falsati, nessun dato è falsato. Avanti così. Il professor Zhu Ning non appare così d’accordo.
«Vent’anni fa, la gente non aveva ragione di falsificare i numeri sistematicamente, soprattutto nel settore privato. La ragione è semplice: le imprese non vogliono sovrastimare i propri ricavi per non pagare troppe tasse. Negli ultimi cinque anni, però qualcosa è cambiato. Dopo il varo del pacchetto di stimoli del 2008-2009 per fare fronte alla crisi globale [586 miliardi di dollari, ndr], tutti si sentono sotto pressione e vogliono mostrare che le cose vanno bene. Certo, sono stati inseriti dei sistemi di controllo per questi numeri, ma qui subentra un altro fattore: la campagna anticorruzione. Oggi, un funzionario è più concentrato sulla preservazione che sul tentativo di far bene il proprio lavoro. Cioè, più che ad applicare nuove norme e regolamenti, sono interessati a congelare la situazione. E quindi le vecchie pratiche vanno avanti per inerzia».