China-Files su Micromega: la verità vi prego, sul web cinese

In by Simone

C’è una vecchia storia cinese che racconta di un uomo, maestro Ye, funzionario imperiale durante la dinastia Han (primo secolo a.C.): Ye era talmente appassionato di draghi, in Cina simbolo del potere, da averne migliaia di raffigurazioni ospitate nella propria casa. Venne il giorno in cui un Drago vero gli si presentò innanzi ed egli – terrorizzato – scappò a gambe levate. La storia di Internet in Cina ricorda questo aneddoto locale: le riforme hanno aperto un periodo in cui la classe politica cinese è stata ossessionata dalla possibilità per la propria popolazione di arricchirsi e accedere alla tecnologia e ai beni di consumo, sperando di creare nel tempo un ceto medio in grado di garantire lo sviluppo del mercato interno. Quando la Cina è diventato uno dei paesi con la più alta penetrazione di internet, uno dei tanti segnali di un benessere consolidato, i governanti hanno visto il Drago in carne ed ossa, e ne hanno avuto paura. E’ partita allora una lenta ed inesorabile battaglia tra le autorità ed i netizen: la censura, con caratteristiche cinesi, è giunta così nelle pagine di cronaca di tutto il mondo.
I cinesi hanno però logiche e tempi tutti loro: l’errore più grave è quello di analizzare le faccende locali e asiatiche con una visione e un pregiudizio tutto occidentale. Allora, lasciandosi andare alle caratteristiche cinesi, dimenticando per un attimo i nostri metodi di valutazione sociologici e politici, la storia assumerà un andamento diverso, all’interno del quale si potranno scorgere elementi più generali della società cinese, che travalicano il singolo argomento, ovvero internet.

La storia di una Muraglia
Nel 1987 lo IHEP – Beijing’s Institute of High-Energy Physics – effettua la prima connessione internazionale con il Cern di Ginevra. Viene mandata la prima mail dalla Cina. Il salto conseguente porta al 1994, considerato ufficialmente l’anno di nascita del world wide web nella Terra di Mezzo. Xu Rongsheng, ex vicedirettore dello IHEP, installa il primo router e lancia on line la pagina del proprio istituto: informazioni e nozioni turistiche basilari. La Terra di Mezzo aveva superato il test più arduo del nuovo millennio, stando a quanto ritiene Manuel Castells: la Cina era entrata nell’ambito della società informazionale contemporanea. Jiang Mihanheng, vice presidente dell’Accademia di Scienze cinese, nonché figlio dell’allora presidente Jiang Zemin, in un incontro tenutosi a Shanghai nel 2001 aveva detto: «la Cina deve costruire un proprio network nazionale, indipendente dall’Internet mondiale». Jīndùn gōngchéng significa letteralmente progetto ingegneristico per lo scudo d’oro. Meglio conosciuto come il Grande Firewall Cinese (termine ormai noto, ma di cui rivendicano la paternità hacker e giornalisti) o il Kung Fu Net, il jīndùn gōngchéng è il nome del progetto partito nel 1998, diventato reale nel 2003 e migliorato nel corso degli anni. Scopo: controllare la rete.
Ancora oggi gli utenti cinesi si collegano ad internet attraverso tre ingressi principali: al nord dalla fibra ottica che collega Pechino a Qingdao (dal Giappone), da quella di Shanghai nel sudest (anch’essa dal Giappone) e da quella di Guangzhou (da Hong Kong). Il controllo è dunque agevole, anche grazie a molti router sparsi nel paese che consentono di accendere o spegnere connessioni. In primis vengono bloccati in automatico gli IP indesiderati, in secondo luogo vengono censurate le ricerche che contengano parole proibite: si va dal porno al 4 giugno (anniversario della strage di piazza Tiananmen), dal Dalai Lama al Falun Gong, il gruppo religioso considerato illegale in Cina, protagonista della manifestazione che nel 1999 diede un input fondamentale al governo per tirare dritto verso un metodo di controllo dell’Internet.
Un apparato tecnologico che ha trovato anche i suoi alleati umani: da una parte le aziende come Yahoo, Microsoft ed anche Google (prima del recente strappo), che hanno accettato il compromesso di filtrare i propri contenuti pur di non perdersi un mercato mastodontico, piegandosi al sistema Grande Firewall Cinese sviluppato grazie alla consulenza dell’americana Cisco; dall’altro il personale umano, decine di migliaia di persone che setacciano il web segnalando contenuti proibiti o «armonizzando» quelli indesiderati nei forum: è il noto esercito dei 50 cents, dalla paga che viene corrisposta ad ogni messaggio inviato on line.
Naturalmente, siamo di fronte ad una censura con caratteristiche cinesi, ovvero: è ampiamente superabile, anzi, è quotidianamente superata. Basta usare un proxy, una scappatoia dall’intranet cinese, e si può accedere a qualsiasi contenuto della rete libera, come dimostrano attivisti cinesi da sempre impegnati nella lotta contro il governo. Ce ne sono di tutti i tipi, da quelli gratis a quelli a pagamento, da Hotspotshield a Gotrusted.
James Fallow sul The Atlantic, si chiedeva: «come mai queste ingenti misure di controllo quando poi il sistema ha falle tali da essere facilmente superabile?»
La domanda disegna un ingresso all’interno della casa cinese, delle sue scatole incomprensibili e del suo mistero, coadiuvato però da un dato certo: il risultato più utile portato dalla censura cinese è l’autocensura, ovvero l’accettazione di avere dei limiti su quanto si può dire e fare nella rete. Ed è una sorta di compromesso accettato dalla maggioranza dei cinesi. Anche perché il web, contrariamente a quanto siamo abituati a credere, non si esaurisce negli strumenti prodotti in Occidente.

Attivismo on line (alla cinese)
Correggendo il tiro dall’esordio del 2003, le autorità di Pechino hanno pensato di applicare alla censura on line delle caratteristiche mirate: è l’esempio del fenomeno dei social network, un’ondata culturalmente devastante che nel giro di pochi anni ha radicalmente cambiato le abitudini comunicative planetarie. Interpretando perfettamente le necessità della massa di disporre di uno strumento affascinante e ricreativo come Facebook, mentre una mano dell’Ufficio della Propaganda bloccava l’accesso al social network americano, l’altra offriva ai netizen un suo omologo cinese, Kaixinwang, un clone armonizzato di Facebook. All’interno di Kaixinwang, letteralmente «La rete della felicità», sono riproposte tutte le funzioni ludiche tipiche di Facebook, i giochi on line sviluppati in flash, fotografie personali, gossip hollywoodiani e tutta la gamma del voyeurismo 2.0, realizzando un ambiente multimediale liberato dalle critiche contro il governo o i governanti (inserendo nel motore di ricerca interno le chiavi «Hu Jintao» e «Wen Jiabao», non si ottiene nessun risultato), approfondimenti su questioni scottanti come i diritti umani o gli scioperi dei lavoratori: i pessimisti, nella rete della felicità, sono banditi.
Stesso discorso per Twitter, Youtube e le piattaforme di blogging: intravedendo enormi margini di profitto nella promozione dell’uso innocuo del web, non c’era motivo di precludere ai cinesi la possibilità di aprirsi un blog per raccontare la fine di un’infatuazione adolescenziale, oppure discutere dell’ultima pop star importata dalla Corea del Sud. Se la libertà portata da internet stava diventando una minaccia, il governo ha dispiegato il suo arsenale di distrazione di massa, facendo conciliare il controllo del flusso informativo con la distribuzione gratuita di oppiacei virtuali: un capolavoro di marketing d’immagine.
All’interno della rete armonizzata cinese viene anche dato spazio al dissenso, purché entro gli spazi dell’innocuo: è il caso di Han Han, 27 anni, un bel ragazzo dei dintorni di Shanghai, autore di best seller, pilota di rally, cantante, blogger e sex symbol. Tramite il suo blog, ospitato sulla piattaforma cinese sina.com, ha espresso ripetutamente attacchi contro il Partito Comunista Cinese, spesso utilizzando egregiamente l’ironia ed il dileggio del potere costituito, guadagnandosi presto le copertine dei principali magazine mondiali fino a rientrare, lo scorso anno, nelle 100 personalità più influenti del Time. Inviso all’ambiente intellettuale cinese, col quale è entrato in aperta polemica letteraria nel 2006, oggi le sue lectio magistralis (Han ha abbandonato gli studi senza finire le superiori) nelle università cinesi, tutte legate a doppio filo col governo, sono richiestissime: i video delle sue performance, tutti disponibili in rete, sono un susseguirsi di battute e doppi sensi contro i rappresentanti del Partito, intervallati dagli applausi e le risate del pubblico, manifestazioni quantomeno singolari in un Paese dove di norma si ride poco, forse perché c’è molto poco da ridere. E’ la tecnica del Bagaglino, che ben conosciamo in Italia e della quale solo ora iniziamo a subirne le amare conseguenze: prendo in giro il potere, ma senza metterlo in discussione.
Per questo Han Han, premiato dai media stranieri col bollino di attivista, all’interno della Cina ha completa libertà di parola e di movimento, protetto dalla sua schiera di fan e dalla sua sostanziale ininfluenza. Chi invece fa il salto dal web alla vita reale, non gode dello stesso trattamento di favore.
Ai Wei Wei, architetto dello stadio Nido d’uccello di Pechino in aperta polemica con le autorità in seguito al terremoto del Sichuan del 2008, è costantemente pedinato dagli sgherri della polizia cinese. Dopo il sisma, è partito assieme a Tang Zuoren, scrittore ed ambientalista, alla volta di Wenchuan, epicentro del terremoto, per condurre delle ricerche sulle cause del crollo delle scuole nella zona colpita, provocando la morte di oltre 5000 studenti. Quando all’inizio del 2009 Tang ed Ai hanno pubblicato i resoconti della loro inchiesta sul blog dell’architetto, è iniziata la rappresaglia: blog chiuso, Tang accusato di «sovversione» e recentemente condannato in via definitiva a 5 anni di carcere, Ai malmenato dalla polizia per aver tentato di testimoniare a favore dell’amico, il tutto nel silenzio dei media cinesi mainstream, che hanno trattato il caso solo a sentenza emessa. All’interno del Grande Firewall Cinese, la linea da non oltrepassare deve essere ben chiara a tutti.

Cantare le due canzoni
L’espressione «cantare le due canzoni» è un modo di dire cinese che equivale al nostro «tenere i piedi in due scarpe». Da sempre il PCC, impegnato ad evolversi per stare al passo coi cambiamenti sociali della Cina, cerca di mantenere la sua onnipresenza in modo da guidare al meglio il paese, come punto di riferimento costante. Internet ha costituito un’anomalia nell’opera di adattamento, ed ha costretto il Partito ad accelerare il processo di adeguamento, non senza errori ed iniziali incomprensioni. Dire tecnologia, come spesso lo hanno inteso i cinesi, non significa solo importare un know-how e copiare, ma significa condizionare la vita delle persone che attraverso l’uso di strumenti tecnologici hanno cambiato ormai le proprie abitudini e le proprie attitudini relazionali: «la tecnologia essenziale sta nel nostro cervello e nella nostra esperienza» (Manuel Castells, Volgere di millennio, UBE, 2000).
Zhào Jīng, più noto come Michael Anti, un altro blogger famoso in Cina, pone sul piatto della discussione un altro elemento: «noi abbiamo una lunga tradizione di società elitaria, quindi anche poche persone come giornalisti ed esponenti della classe media, possono cambiare il paese, ponendosi come opinion leader. Per me i giornalisti indipendenti, i blogger, questi sono élite. La gente comune non è interessata a questi argomenti, non parla di politica, non cambierà niente. Solo con la democrazia, con il voto, queste voci possono incidere. Senza, come adesso, incidono solo le voci delle élite, la maggioranza non modifica nulla. E in Cina è sempre stato così».
E’ opinione corrente in Cina che proprio la classe media intellettuale possa essere uno dei driver del cambiamento del Partito su temi riguardanti Internet. Nessuno però mette in discussione il Partito stesso, piuttosto si tratta di un doppio percorso: da un lato gli intellettuali cercano una sponda politica, dall’altro il Partito, per evolversi e rimanere unico e incontrastato, sarà costretto a venire a patti con questi nuovi ceti colti e benestanti. Per certi versi, si potrebbero ricreare le condizioni che nell’89 sfociarono nella protesta studentesca di piazza Tiananmen: un’élite intellettuale portatrice di istanze riformiste spalleggiata da alcuni ambienti del Partito Comunista, contrapposta ad un gruppo di politici della vecchia guardia, tendenzialmente conservatori. Stavolta però le condizioni moderne giocherebbero a favore della spinta riformista: i giganteschi riflettori dell’opinione pubblica mondiale, come nell’89, sono puntati dritti sopra Pechino, amplificati dalla velocità e dall’efficacia dei nuovi mezzi d’informazione digitali.
Per Michael Anti è solo una questione di tempo: «Tutta la generazione nata su internet cambierà parecchie cose, forse non nel governo, dove i metodi di reclutamento sono diversi. L’80% del personale dei media comincia ad essere nato su internet: l’informazione sarà diversa. Succede già adesso. Aspettiamo dieci anni. La gente muore, i bambini crescono e nuove generazioni si affermano».
Le nuove generazioni dunque, come confermato dalle ondate di scioperi che stanno caratterizzando la Cina, sono sotto la lente di ingrandimento, così come le mosse del Partito: quale futuro potrà essere determinato è un mistero tutto cinese, che dipenderà anche dai costi sociali e dalla capacità di gestirli da parte dell’apparato burocratico. Nel 2012 cambierà la leadership e, secondo molti osservatori, sarà proprio la quinta generazione – che uscirà dopo i consueti scontri all’interno del solo apparentemente monolitico PCC – a doversi fare carico delle riforme politiche necessarie affinché la Cina possa mantenere la sua unità politica ed il ruolo di locomotiva economica mondiale. Il Partito dovrà adattarsi: al suo interno non sono poche le spinte in questo senso, memori dell’esperienza sovietica e del suo tracollo per atrofismo politico (e non solo).
E’ un errore tutto occidentale quello di credere che al progresso economico di una società debba fare seguito anche una riorganizzazione democratica.
Non è la democrazia il problema dei cinesi. Kaiser Kuo, altro opinionista cinese focalizzato sui cambiamenti sociali derivanti dall’internet, lo specifica in modo chiaro: «ogni paese ha un proprio concetto di libertà di espressione che non può essere considerato universale. Penso sia ragionevole pensare che un modo per aprire progressivamente le proprie porte, sia anche ricorrere all’uso parziale della censura. Molti cinesi ritengono che questo sia giusto. Molti cinesi, la maggioranza, non sono d’accordo con l’idea di una libertà assoluta su internet. Questo dato non può essere ignorato».
Paradossalmente, in un sistema monopartitico come quella cinese, la richiesta di maggiore libertà non passa attraverso azioni violente e di rottura con l’establishment politico: l’insistenza degli attivisti si concentra sull’applicazione delle norme già vigenti. Secondo la Costituzione cinese infatti, come sfacciatamente ricorda sempre il Partito quando è messo alle strette, i diritti di libertà d’opinione e di espressione sono garantiti nero su bianco. Peccato che le stesse autorità, pur citandola a loro difesa, si guardino bene dall’applicare la Carta, ed è proprio su questo tasto che battono i critici del governo cinese: la solidità delle leggi contro l’applicazione arbitraria del sistema politico cinese corroso dalla corruzione. Anche in Cina, come in Italia, l’ultimo baluardo di chi spera in un cambiamento, sembra essere la Costituzione.

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