Apple rilascia per la prima volta una lista completa dei fornitori di componenti hi-tech (tra cui la controversa Foxconn), dettagliando i passi in avanti compiuti per la sicurezza e il rispetto delle condizioni di lavoro. Ma rimangono ancora molte violazioni.
Per rispondere alle critiche sull’inadeguatezza delle condizioni lavorative degli operai impiegati nella catena produttiva, la Apple ha deciso di pubblicare l’elenco dei propri fornitori.
Una lista di 156 nomi che, sebbene non completa, include il 97 per cento delle aziende che lavorano con Cupertino. Tra queste grandi nomi come Intel o Nyidia, entrambe produttrici di chip, o ancora Samsung Electronic, Toshiba, Panasonic, Sony, fino ad arrivare a realtà meno note come la Zeniya Alluminum, la Ji Li Molud Manifacturing, la Unisteel Technology.
Nell’elenco figura anche la Hon Hai, l’azienda taiwanese più conosciuta come Foxconn, il cui nome è legato a una serie di suicidi o tentati suicidi che hanno coinvolto almeno 18 dipendenti, negli stabilimenti cinesi dove sono assemblati l’Ipod e l’Ipad e i cui impianti sono stati teatro di almeno due esplosioni che hanno fatto quattro morti e oltre settanta feriti.
L’ultima protesta che ha visto coinvolta la società diretta da Terry Gou, questa volta contro i trasferimenti a un’altra linea di produzione, è stata appena all’inizio del mese. Almeno 150 dipendenti hanno minacciato di gettarsi dal tetto di un impianto a Wuhan, nella Cina centrale, dove tuttavia la Apple, prima azienda tecnologica ad aderire alla Fair Labour Association, non ha niente a che fare.
Foxconn a parte, sui cui stabilimenti la società orfana di Steve Jobs aprirà un’indagine, e nonostante i propositi di Apple per monitorare e migliorare le condizioni di lavoro soprattutto nei Paesi asiatici come Malaysia e Singapore, sfogliando il rapporto sulle Responsabilità sociale diffuso venerdì, rimangono molti punti neri.
I casi di lavoro minorile riscontrati in almeno 5 impianti sono stati 19, in diminuzione rispetto ai 91 dell’anno prima. Un calo dovuto soprattutto al maggior numero di ispezioni, ma comunque di più rispetto agli 11 del 2009. Sul fronte dell’orario di lavoro, soltanto il 38 per cento dei fornitori rispetta il limite delle 60 ore settimanali fissato da Cupertino.
“Il punto non è tanto quanto le aziende rispettino gli standard Apple”, si legge tuttavia in un analisi del China Labour Bulletin, “ma quanto rispettino le leggi del Paese in cui operano”.
L’organizzazione di Hong Kong snocciola alcune cifre. Le leggi cinesi fissano il tempo di lavoro in 40 ore settimanali, cui possono aggiungersi 36 ore di straordinari al mese. Il totale è quindi di 49 ore alla settimana. Undici in meno dei limiti stabiliti dalla Mela.
Inoltre, “la Apple continua a non specificare quali aziende commettono le violazioni”, continua Geoffrey Crothall del CLB, “Il rapporto sarebbe molto più utile se mettesse in relazione il comportamento delle società con le leggi dei singoli Paesi”.
Sul fronte dell’impatto ambientale lo scorso settembre i fornitori della Apple sono finiti nel mirino delle organizzazioni verdi cinesi per il rilascio di sostanze tossiche nell’aria e nei fiumi, causa dell’alta percentuale di casi di cancro tra la popolazione.
Come notano i critici, nel rapporto mancano informazioni sull’esatta localizzazione degli impianti o sono omessi alcuni nomi, come nel caso della Kaedar Electronic, tra le aziende sotto accusa per la questione inquinamento, perché sussidiaria di una società più grande, la Pegatron.
“Molte società hanno il loro momento Nike”, ha detto a Bloomberg il presidente della Fair Labour Association, Auret van Heerden in riferimento alla scelta del gruppo di abbigliamento sportivo di unirsi all’associazione dopo le denunce sugli abusi e le violazioni nelle fabbriche asiatiche negli anni Novanta, “capiscono quanto sia difficile mantenere alti standard in un mercato globale”.
[Scritto per Sky. Fotocredits: sky-it]