Bo Xilai e Qiu Xiaolong. Compagni di scuola

In by Simone

Secondo indiscrezioni, domenica avremo l’attesa sentenza al processo Bo Xilai. Nel frattempo il giallista di fama internazionele Qiu Xiaolong ci apre uno squarcio sul suo passato e ci racconta l’adolescenza da principino del compagno Bo con cui, ironia della sorte, ha condiviso scuola ed esperienze generazionali.
Quale sarà la sorte dell’ex reuccio di Chongqing? Cosa deciderà la giustiza, dopo che uno dei più influenti membri del Partico Comunista Cinese ha rigettato le accuse di corruzione, scompaginando le carte di una sentenza già scritta? Domanda oziosa e ovvia nella stessa misura, che richiederebbe la chiosa di una massima, di un motto assai cinese e altrettanto opaco, così come conviene al giornalismo occidentale quando supera la cortina di fumo (in senso pieno) che stagna sopra Pechino.

Astenersi dalle previsioni – non certo dall’analisi – è forse una scelta utile, così come evitare il parallelo ossessivo con il processo alla Banda dei Quattro sarebbe un atto di necessaria onestà storiografica, prima ancora che intellettuale. Un’altra Cina, un’altra classe dirigente cresciuta scandendo a chiari toni il motto « Arricchirsi è giusto », un altro pianeta sottendono l’epica spuria del processo a Bo Xilai, senza la necessità di scomodare brani di storia che appartengono al modernariato. È forse giunto il momento di guardare la Cina negli occhi, e di riaggiornare il proprio orecchio.

Il nome di Mao è stato riempito di un senso nuovo, così come si conviene a quei feticci che nel tempo si rinnovano, pur conservando una superfice identica. E così in quella sillaba che ancora fa tremare le ginocchia a taluni, il cuore ad altri, vi è compressa la dialettica di uno scontro politico nuovissimo e antico, che vede contrapposti ordini di potere sotto le insegne di un ritorno a sinistra da una parte, di un’oculata conservazione dello status quo dall’altra.

Tra gli innumerevoli fuoriusciti dopo l’eccidio di Piazza Tiananmen, vi è Qiu Xiaolong. Novello Carneade, forse molti si staranno chiedendo chi sia costui. Certo, agli appassionati di gialli dalle sfumature orientali, questo nome sarà più noto. Dalla sua penna infatti è nato il commissario Chen Cao, astro sorgente della polizia di Shanghai, nonché sublime poeta e traduttore di Eliot. Pubblicato in Italia da Marsilio, prima con timidezza e poi con esplicito vigore – nonostante redazioni non sempre cristalline –, Chen Cao è entrato di diritto nel pantheon degli investigatori più celebri al mondo, soprattutto per la felice ricetta elaborata da Qiu, composta di ingredienti tradizionali, ma con un tocco di nostalgia tutta cinese e di una pratica poliziesca che fa ricorso più alla letteratura classica, a discapito degli strumetni del ragionamento scientifico.

Svagato, eretico, coltissimo, raffinato gourmand, Chen Cao è figlio della Cina dengista, teso tra un passato di vivo dolore – suo padre era un destrorso perseguitato dalla Guardie Rosse – e un presente nel quale l’essere e l’essere per il partito non corrispondono pressoché mai. Qiu scrive da Saint Louis, dove alla Washington University insegna letteratura cinese. Uno dei tanti dissidenti rifugiati negli Usa, si dirà, che scrivono del loro tragico passato, magari prendendo le parti di quell’Occidente che li ha accolti e lanciati con successo nel vasto olimpo delle manifestazioni artistiche. Molto di più in verità. Attraverso la schermatura della saga di Chen, Qiu è uno degli analisti più efficaci sul corso della “nuova” Cina. Critico senza appello, lettore disincantato di un sistema di potere che tiene sotto scacco quasi due miliardi di individui, giudice accorato di una generazione che ha visto scemare un sogno di democrazia concluso nel sangue: sono questi gli attributi maggiori di uno scrittore prolifico e serenamente partigiano, che ha intitolato – senza troppi giri di parole – la sua ultima fatica The Mao Case.

Ma come si combinano le parabole di Bo e di Qiu? Cosa lega i due, oltre la comune origine? Innanzitutto l’età, e l’appartenenza proprio a quella generazione di cui si scriveva prima. Esiti diversi di una parabola omogenea, declinazioni epocali da parti opposte della barricata – come raccontato da  Emma Lupano su AgiChina24 – Bo e Qiu sono stati, in buona sostanza, compagni di scuola. « Si credeva il successore di Mao, e come Mao, che si credeva un imperatore con un mandato del Cielo, portava anch’egli avanti questo sogno imperiale », questa l’epigrafe impressa da Qiu a proposito del suo celebre collega di studi.

Lapidario, essenziale, pochi tratti per meglio definire un profilo che ha certo il sapore della critica, ma anche un fondo di realtà, quella stessa che manca a tanti cronisti che oggi si interessano del processo a Bo, dimenticando troppo spesso l’incidenza della sua origine sociale, la sua formazione. E se è vero che l’aneddotica è nemica della filologia, allo stesso tempo essa è utile a cogliere la profondità dei fenomeni, o meglio le irregoalrità tipiche di una superfice così complessa.

Ebbene, racconta Qiu, « Sono stato suo compagno di studi all’Accademia cinese delle scienze sociali, negli anni Ottanta. Mi ricordo di lui non tanto perché faceva parte di una famiglia politicamente importante, ma perché un giorno giocammo a ping pong. Gli prestai la mia racchetta, non me la diede mai indietro ». Assunto che la racchetta non è più tornata al suo legittimo proprietario, v’è da domandarsi se della ricostruzione – e degli esiti – di questa indebita sottrazione possa un giorno occuparsi il commissario Chen.

Tuttavia, amenità a parte, è proprio la sintetica analisi promossa da Qiu a gettare una luce diversa, altra rispetto alla vulgata attualmente in circolazione. Riporta ancora la Lupano nella sua intervista a Qiu: « È quanto ha fatto a Chongqing ad avere attirato la mia attenzione. Uno dei movimenti lanciati da Bo invita a "schiacciare il nero e cantare il rosso". Il "nero", a Chongqing, era il crimine organizzato, il "rosso" le canzoni rivoluzionarie del periodo di Mao. Ma un movimento del genere non può passare inosservato a chi, come me, è stato un "cucciolo nero".

Durante la Rivoluzione culturale i "neri" erano i reazionari da combattere e mio padre fu etichettato come tale a causa di una piccola attività commerciale che aveva prima del 1949. Una volta era in ospedale per una operazione agli occhi e, quando era ancora tutto bendato, le guardie rosse lo visitarono esigendo che scrivesse subito un’autocritica. Dovetti andare io all’ospedale a scriverla per lui, e dovetti poi fargli da stampella umana per sorreggerlo quando, ancora debilitato, pretesero che rimanesse in piedi sotto il ritratto di Mao, mentre i suoi aguzzini intonavano delle canzoni rosse. Ecco perché diffido del revival maoista ».

Con buona pace di Stendhal, la dialettica di “rosso” e “nero” si ripropone sotto una luce nuova. Sarà o non sarà un caso che le voci divergenti sul nuovo corso cinese parlano da fuori patria? Sarà o non sarà un caso che – lontane dalle ingerenze interne – esse riescono ad allargare la prospettiva sull’offuscato presente della Repubblica Popolare? E non importa quanto le biografie di Bo, Qiu e del suo personaggio di carta siano appaiate. La risposta a Chen Cao, commissario cinese, indagatore della Cina ai tempi del boom.

*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni) e ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets). È stato anche redattore del quotidiano Pisanotizie.it.

[Foto credits: chinhdangvu.blogspot.com]