Bellezza e libertà: una riflessione senza tempo

In by Simone

Riproponiamo qui la traduzione inedita di un estratto di Estetica e libertà dell’uomo, tesi di dottorato di Liu Xiaobo, che su China Files pubblichiamo per la prima volta integralmente, dopo essere apparsa il 1 Aprile su Saturno, inserto culturale de Il Fatto Quotidiano.

Passati i clamori, le polemiche e le forti emozioni suscitati dall’assegnazione del premio Nobel per la pace, si torna a parlare di Liu Xiaobo come intellettuale piuttosto che come dissidente politico. Ma recentissimi eventi che stanno avvenendo in Cina proprio in questi giorni (arresto di Ai Weiwei, intensificazione della censura, ulteriore marginalizzazione di eventi artistico-culturali) dimostrano ancora una volta come all’arte sia riconosciuto un potenziale eversivo e anche l’estetica possa diventare una questione politica, e come la tesi di Liu Xiaobo sia ancora attualissima.

10 dicembre 2010. Premio Nobel per la pace. L’immagine della sedia vuota di Oslo viene trasmessa in tutto il mondo. O quasi. Un simbolo che ci ricorda come i cosiddetti valori universali, non siano in verità universalmente condivisi.

Ne aveva discusso proprio il giovane Liu Xiaobo nella sua tesi di dottorato, Estetica e libertà dell’uomo [Shenmei yu ren de ziyou], esattamente un anno prima che le manifestazioni di Piazza Tian’anmen venissero soffocate nel sangue. Era il 25 giugno 1988 alla Normale di Pechino e il giudizio dei membri della commissione fu estremamente positivo. La casa editrice dell’Università, la pubblicò nel settembre di quello stesso anno. Dopo i fatti di Tian’anmen quel libro fu ritirato dalle librerie ma, come spesso accade ai classici proibiti, continuò a circolare clandestinamente. L’abbiamo ricevuto così: un modesto plico di fotocopie. Il nome dell’autore, tre piccoli caratteri sbiaditi, è pronunciato a bassa voce.

Ora più che mai. Mancano alcune delle 200 pagine totali. Ma è normale. Questi fogli sono passati di mano in mano per oltre due decenni. Hanno stimolato discussioni e commenti tra studenti, intellettuali e professori delle università più prestigiose della Cina. Ora le abbiamo di fronte, con alcuni commenti scritti frettolosamente a margine e diverse sottolineature. Quando è stata scritto la Cina viveva un periodo completamente nuovo. Dopo decenni di omologazione ideologica culminati con la Rivoluzione culturale, nel 1977 riaprivano le università.

Liu Xiaobo fa parte di quella prima generazione che vi si iscrive. Si laurea in Lettere all’Università di Jinlin e subito ottiene un posto da ricercatore alla Normale di Pechino. In quegli anni molti intellettuali cinesi mettono in discussione il confucianesimo, dottrina cardine del pensiero orientale che persegue il raggiungimento di un’armonia ideale dove l’individuo scompare a favore del benessere della società tutta. Sono anni in cui la società cinese riscopre e ricerca spazi di espressione individuale che si manifesta con uno sviluppo inedito dell’espressione artistica ed estetica e di nuove forme di cultura popolare.

Si riscoprono i valori occidentali di cui si era cominciato a discutere alla fine del XIX secolo, quando la Cina aveva cominciato ad affacciarsi alla modernità. Si discute di psicologia, linguaggio e, soprattutto, di individualismo. Si afferma la libertà di pensiero al di fuori degli schemi fissati dalla tradizione. E Liu Xiaobo si inserisce perfettamente in questo movimento culturale che ha fatto paragonare a molti la scena filosofica della Cina di questo periodo al secolo dei lumi in Europa. Sono qui che si devono rintracciare le radici delle aspirazioni contenute in Charta 08, documento che in Patria gli è costato una condanna a undici anni di prigione e in Occidente gli è valso il premio Nobel per la Pace.

L’appello è noto. Invoca libertà di espressione, libere elezioni, riconoscimento delle libertà individuali, e il rispetto dei diritti dell’uomo. Niente di straordinario per la cultura occidentale, ma qualcosa di estremamente coraggioso per un cinese che vive e lavora nella Repubblica popolare.

Paradossalmente l’origine di questo coraggio è da rintracciarsi proprio in quella cultura che il giovane Liu e la sua generazione cercava di superare. Il funzionario confuciano, assimilabile alla figura dell’intellettuale moderno, poteva infatti criticare il potere. Anzi, ne aveva il dovere se serviva a perfezionare il perseguimento di una società armoniosa. Nel suo saggio giovanile tutti questi argomenti sono in nuce.

La tesi è che solo attraverso l’esperienza del bello l’individuo può ritrovare la sua centralità, e quindi la sua libertà. L’uomo, infatti, può emanciparsi dalla sua condizione tragica proprio grazie alle proprie inclinazioni spirituali e soggettive. Proprio in quest’attenzione all’individuo in quanto tale sta l’originalità del suo pensiero perché come ci spiega il giovane Liu la cultura orientale […] presta più attenzione alla società, alla nazione e al popolo che all’individuo. […] L’uomo orientale, in particolare quello cinese, enfatizza l’unità e l’armonia tra individuo e società. L’autore, invece, guarda all’individuo e alle capacità dei suoi processi cognitivi quando si trova di fronte alla bellezza.

Nella sua analisi coesistono filosofia occidentale moderna, letteratura – Shakespeare su tutti – e pensiero tradizionale cinese. Il cuore di questo percorso teorico sono approfondite esplorazioni del rapporto tra estetica e intuizione, illusione, sinestesia, empatia e subconscio. Liu conclude riscoprendo l’individuo, l’uomo dotato di un nuovo strumento: la bellezza. Solo quest’ultima gli permette di superare la realtà e i suoi limiti, di travalicare le costrizioni e di raggiungere una nuova condizione di libertà. Avvalendosi di questo strumento scoperto in giovane età, Liu ha continuato a commentare la strategia seguita dal Partito comunista dopo la repressione delle manifestazioni dell’89 a cui aveva partecipato con grande slancio.

Quando al grido di arricchirsi è glorioso Deng Xiaoping aprì alle riforme economiche che hanno trasformato la Cina nella potenza economica di oggi, Liu Xiaobo denunciò l’intento di comparare la memoria delle masse con la promessa di un benessere relativo.

In un famoso saggio del 2000, che presta il nome a una raccolta di suoi articoli recentemente pubblicata da Gallimard, la chiama la filosofia del porco: ci insegna come fare affinché i porci si addormentino quando sono sazi e mangino quando si risvegliano, inducendoli a soddisfare bisogni primari come quelli alimentari e sessuali senza lasciargli il diritto a più alte aspirazioni. Come non ritrovare in queste posizioni le convinzioni espresse vent’anni prima?

Quella sedia vuota che tanto ha colpito il nostro immaginario è una forma d’arte. Un’esperienza estetica che ci costringe a ripensare alla libertà dell’uomo. E alla condizione di Liu Xiaobo. In catene.

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