Mattel, Fisher-Price, Disney, Hasbro, Crayola, sono tra le multinazionali del giocattolo su cui punta l’indice un rapporto di China Labor Watch (CLW). Gli si contestano violazioni dei diritti dei lavoratori come: discriminazione, requisizione dei documenti personali dei lavoratori, assenza di controlli medici, assenza di dispositivi di sicurezza, contratti incompleti o inesistenti e straordinari che superano le 120 ore mensili (il massimo stabilito dalla legge è 36 ore).
Barbie, topolino, transformer. Quasi tutti i giochi che regaleremo ai più piccoli sotto Natale sono stati prodotti in violazione dei diritti dei lavoratori. È questo ciò che afferma l’ultimo rapporto di China Labor Watch, ong con base a New York fondata nel 2000. L’indagine si è svolta da giugno a novembre 2014 in quattro impianti nel Guangdong dove si costruiscono balocchi come la Barbie, Topolino e i Transformers: Mattel Electronics Dongguan (MED), Zhongshan Coronet Toys (Coronet), Dongguan Chang’an Mattel Toys 2nd Factory (MCA) e Dongguan Lung Cheong Toys (Lung Cheong).
Con il metodo incrociato della presenza in fabbrica sotto copertura e delle interviste agli operai fuori orario di lavoro e dietro garanzia di anonimato, CLW ha rilevato 20 violazioni “giuridiche ed etiche” del lavoro. Nel lungo elenco, compaiono procedure di assunzione discriminatorie, sequestro dei documenti personali dei lavoratori, assenza di esami medici nonostante condizioni di lavoro anche pericolose, violazioni sia nella formazione sia nelle procedure relative alla sicurezza, macchinari non scuri, contratti di lavoro incompleti o inesistenti, straordinari fino a 120 ore al mese, salari non corrisposti, assicurazioni sociali pagate solo in parte, rotazione frequente tra turni di giorno e di notte, inquinamento ambientale, procedure di licenziamento e pratiche manageriali illegali, boicottaggio dei controlli e assenza di efficaci strumenti di reclamo e di rappresentanza sindacale.
Il comunicato sottolinea che, rispetto a una precedente ricerca del 2007, poco o nulla è cambiato. Le condizioni dei lavoratori nell’industria dei giocattoli non sono migliorate negli ultimi sette anni contrariamente a quanto successo nel settore dell’elettronica di cui Foxconn è un esempio. Il compenso mensile base di un operaio delle fabbriche di giocattoli è di 174 euro. Se lavora dodici ore al giorno sei giorni a settimana può raggiungere i 390. Ma soprattutto sono in molti ad essere assunti come lavoratori temporanei. Questi ultimi non hanno un contratto e sono pagati poco più d un euro all’ora. Un operaio Foxconn oggi guadagna un minimo di 455 euro al mese.
Il problema di fondo, denuncia l’organizzazione, risiede nel fatto che le multinazionali del giocattolo fanno ricadere sulla catena delle subforniture tutti i rischi imprenditoriali e il peso della flessibilità. Dividono i propri ordini tra decine o addirittura centinaia di fabbriche e fabbrichette, mettendole in competizione tra loro. Ognuna fornisce solo una piccola parte della merce e le grandi multinazionali possono spostare facilmente i loro ordini tra i fornitori, che restano in posizione contrattuale cronicamente debole. Così, sono costretti ad accettare il prezzo di produzione voluto dalla grande società, ma dato che i giocattoli devono essere qualitativamente perfetti – dio ci scampi che qualche pargolo di Park Avenue si strozzi ingoiando la testa di una Barbie – l’unico fattore flessibile è il costo del lavoro, cioè l’ultimo anello della catena.
Questo sistema – aggiunge CLW – fa comodo anche a livello di immagine, nel caso emerga qualche irregolarità. In tal caso, per la grande multinazionale è facile gettare la croce sulle spalle del subfornitore o magari, in funzione concorrenziale, su qualche altro cliente della fabbrichetta. “Se la pressione dell’opinione pubblica si fa troppo intensa, le aziende di giocattoli sostengono che la fabbrica non ha rispettato il loro codice di condotta e, su questa base, la fanno finita con quello specifico stabilimento”. In questo modo, una società di giocattoli può fare la parte dell’impresa “etica”, che si batte per i diritti dei lavoratori. La Ong rileva violazioni anche in quelle fabbriche controllate direttamente dalle multinazionali, che in tal caso cercano di incolpare generici “vizi di settore”. È già successo infatti che CLW segnalasse violazioni dei diritti dei lavoratori in fabbriche che fornivano la Mattel, ma l’azienda ha risposto che considerava “il benessere delle persone che fanno i nostri prodotti molto seriamente” e ha iniziato un’azione legale sostenendo di compiere regolari controlli sui fornitori (che troppo spesso però non vengono condotti a sorpresa, sostiene CLW). Se messa alle strette, inoltre, l’azienda madre può sempre recidere il contratto con i propri fornitori.
Alcuni abusi sono anche difficili da dimostrare, per esempio quelli verbali. Un operaio di una delle quattro fabbriche prese in oggetto dal rapporto ha raccontato di aver chiesto un permesso al suo supervisore perché suo padre stava male. “Non te ne puoi andare nemmeno se ti muore un famigliare” gli avrebbe risposto quest’ultimo. E nei picchi di stress e nell’alienazione della fabbriche sono spesso le parole a ferire più dei diritti negati. Nel 2010, una donna di 45 anni si è gettata dal tetto della fabbrica. Secondo i suoi colleghi questo gesto disperato era stato la reazione alla minaccia di licenziamento se non avesse lavorato più velocemente. Insomma, per porre rimedio si tratterebbe di istituire procedure per rendere trasparente tutta la filiera produttiva, dice la Ong: una soluzione che negli ultimi tempi ricorre spesso non solo per i diritti sul lavoro, ma anche per il problema della riduzione dell’inquinamento. Ci vorrebbe poi un sindacato indipendente che fa il suo mestiere. Ma qui si entra nel politico, perché in Cina tale sindacato non esiste. Il CLW sottolinea come proprio nel Guangdong ci sia in corso un processo di riforma del Zhonghua Quanguo Zonggong Hui (federazione pan-cinese dei sindacati), che di fatto è una corporazione controllata dal Partito. In questo processo sperimentale di riforma – si dice – le multinazionali potrebbero intervenire, incoraggiando l’elezione diretta dei rappresentanti di fabbrica. Insomma, dando un taglio a ciò che ha consentito loro ampi margini di profitto negli ultimi trent’anni. Piuttosto idealista.
[L’articolo ne mette insieme due: uno scritto per il Fatto Quotidiano, uno per Lettera43]