Bangladesh – La strage bianca del tessile

In Uncategorized by Simone

Il crollo della palazzina a Dhaka che ha fatto oltre 400 morti ha puntato nuovamente l’attenzione sulle condizioni di lavoro nel settore del tessile in Bangladesh. Prima altre tragedie non sono servite tuttavia a portare in primo piano il tema della sicurezza. E le vittime sono diventate tema per lo scontro politico.
Il nuovo anno del calendario bengalese ha avuto inizio una manciata di giorni fa nel giorno di festa detto Poyla Boishakh. Siamo nel 1420, un anno inaugurato con la più grande tragedia “bianca” della storia del Bangladesh e con un’irrefrenabile ondata di rammarico e indignazione.

Il capodanno bengalese di Roma, celebrato con orgoglio e grandeur dalla comunità di immigrati bangladesi, è stato posticipato al 25 aprile per rispettare silenziosamente le vittime e i parenti della disgrazia che ha portato alla ribalta il Bangladesh sui media di tutto il mondo. Seppure, a giudicare dalle cause e dalle premesse degli eventi, parlare di “disgrazia” – evento da attribuire, per definizione, alla cattiva sorte – sarebbe un’inesattezza e per di più un’offesa nei confronti del cordoglio che ancora scuote il Paese.

Mercoledì 24 aprile, le immagini di un Bangladesh di cui si parla solo in momenti di crisi, catastrofi naturali e incidenti infernali, sono ricomparse sulle pagine italiane mostrando la consueta faccia della medaglia. Eppure le grandi firme della moda italiana a basso e medio-alto profilo, come Benetton e Piazza Italia, hanno optato per l’outsourcing nei dintorni di Dhaka già da tempo, attratte dalla manodopera più economica e abbondante del mondo.

Mentre Benetton ha prontamente negato qualsivoglia legame con le fabbriche tessili dell’edificio Rana Plaza, miseramente crollato su se stesso come un castello di carte il 24 aprile, i soccorritori hanno nuovamente sollevato l’asticella del numero delle vittime a 427. I superstiti e i feriti salvati dalle incessanti operazioni di soccorso sarebbero al momento 2440, ma potrebbero essere a centinaia gli operai – donne, per la maggior parte – ancora intrappolati fra le macerie.

Il Rana Plaza ospitava di fatto un piccolo centro commerciale e cinque fabbriche di abbigliamento, per un totale di 3122 dipendenti. La pericolosità e la fatiscenza del palazzo di otto piani (gli ultimi tre costruiti abusivamente) era stata sottolineata dal rapporto dell’ispezione che, considerata l’estensione delle crepe, dichiarava l’edificio non idoneo all’uso. Mentre alcuni negozi avrebbero colto il monito, i proprietari delle fabbriche di abbigliamento New Wave Buttons e New Wave Style avrebbero costretto gli operai a presentarsi comunque sul posto di lavoro e sono ora in arresto.

Manifestanti e operai del settore tessile si sono riversati per le strade di Dhaka e Chittagong a migliaia. Con un’opinione pubblica già infervorata dagli ultimi mesi di instabilità politica, le proteste sono subito sfociate in violenza: oltre 150 veicoli danneggiati, numerose fabbriche tessili vandalizzate e incendiate, altre fabbriche chiuse e asserragliate per il timore di attacchi.

La polizia ha risposto con pallottole di gomma e lacrimogeni, mentre da parte della politica, per placare l’indignazione e simboleggiare una promessa di giustizia, il governo ha sollecitato l’immediato arresto di due ingegneri, presumibilmente coinvolti nell’edificazione del Rana Plaza, e dei due titolari delle fabbriche New Wave.

I manifestanti hanno richiesto a gran voce la pena di morte per il proprietario dell’edificio, Mohammad Sohel Rana, catturato ieri dalle forze dell’ordine dopo una vera e propri caccia all’uomo (sua moglie è stata tenuta in fermo dalla polizia già a partire da sabato per calmare le acque e mettere il latitante sotto pressione). Rana si sarebbe di fatto dileguato subito dopo il crollo. Avrebbe tentato di fuggire e cercare rifugio in India, coadiuvato dai contatti dell’Awami League, il partito di maggioranza del governo bangladese di cui Rana fa parte in qualità di piccolo leader locale.

La casuale associazione del proprietario del Rana Plaza con il partito al governo ha resuscitato violenze e malumori che continuano ad abitare la coscienza politica di un Bangladesh socialmente diviso dai postumi del movimento di piazza Shahbagh, rassegnato alla corruzione e all’inettitudine politica a partire dall’Indipendenza del 1971, impotente e disilluso dinnanzi al solito succedersi di leadership pericolanti, sia da parte della stagnante intellighenzia dell’Awami League, cristallizzata nella retorica nazionalista anti-pakistana, sia dal versante dell’opposizione di centro-destra, capeggiata dal Bangladesh National Party (BNP) e alleata del partito fondamentalista Jamaat-e-Islami.

La manipolazione politica del genocidio bianco del Rana Plaza ha nuovamente aizzato le fiamme del conflitto delle parti sociali portando alle dichiarazioni più scriteriate. Su blog e quotidiani in lingua bengali, il presidente della Lega Popolare di Contadini e Lavoratori Kader Siddiqui insinuava, fino a pochi giorni fa, che il proprietario dell’edificio fosse stato scortato al di là del confine dai membri del partito al governo, prima che questo ne ordinasse pubblicamente la cattura.

Giocando al rimbalzo, il ministro dell’Interno ha accusato il Bangladesh National Party di aver manomesso i pilastri portanti dell’edificio causandone intenzionalmente il crollo. Il BNP ha puntato il dito contro i membri dell’Awami League, che avrebbero premeditato il genocidio e provocato il crollo per impedire lo svolgimento dello sciopero indetto nello stesso giorno da BNP e Jamaat-e-Islami. I blog più maliziosi hanno pubblicato delle foto dal profilo Facebook del fuggiasco Sohel Rana, in atteggiamenti estremamente intimi con un deputato dell’Awami che negava invece di conoscere il ricercato.

A prescindere dalle calunnie più spicciole, i portavoce dei gruppi politici sono concordi nel condannare la tragedia in quanto conseguenza quasi premeditata di un omicidio di massa, uno sterminio provocato, forse, non tanto dalle lotte individuali di potere, quanto dalla generale negligenza amministrativa, dall’indifferenza del capitalismo, dall’incapacità di dare ascolto alle richieste dei sindacati e delle associazioni per i diritti umani, come Clean Cloth Campaign e Labour Behind the Label, che dal 2005 insistono – con pochissimo successo – perché le grandi firme, da Primark a Benetton, da Walmart a Mango, firmino l’accordo per il rispetto delle norme di sicurezza degli edifici .

Dopo la recente strage della fabbrica tessile Tazreen, distrutta da un incendio che costò 117 vittime nel novembre 2012, Solidarity Center informa che “oltre due dozzine”di fabbriche tessili sono state colpite da incendi. Non abbastanza, evidentemente, per trasformare il lutto in agenda del giorno e portare in posizione di pressante priorità il tema della sicurezza e dei diritti degli operai del tessile, un settore la cui portata è raddoppiata in soli cinque anni.

L’abbigliamento “made in Bangladeshrappresenta il 75% delle esportazioni e procura oltre il 17% del suo prodotto interno lordo. La paga minima degli operai (intorno ai 38 dollari al mese) mantiene il Bangladesh in posizione competitiva rispetto alle crescenti retribuzioni in Cina e Vietnam, secondo la rivista commerciale Sourcing Journal. E’ fondamentale che dall’interno del Paese vengano dati segni di riforma e di garanzie minime, prima che le grandi marche ritirino, imbarazzate, i loro capitali, con gravi conseguenze su un’economia già vacillante.

[Foto credit: telegraph.co.uk. Scritto per il Manifesto.]