La dissoluzione del governo è avvenuta e una data è stata finalmente stabilita: il 3 luglio in Thailandia ci saranno le elezioni. Ma sarà tutto così semplice?
“Queste elezioni saranno libere e giuste, e chi vincerà governerà” ha promesso Abhisit, primo ministro uscente anche se appare difficile pensare che – dopo tutto ciò che le influenti famiglie dell’élite tailandese hanno fatto per rimanere al potere negli anni che hanno seguito il colpo di stato del settembre 2006 con cui un gruppo di soldati filomonarchici ribaltarono il governo “rosso” democraticamente eletto – un’eventuale vittoria elettorale di Phuea Thai, il nuovo partito sostenuto dalle “camicie rosse”, sarà accettata come se niente fosse. La scintilla dell’attuale battaglia per la democrazia in Thailandia è scaturita dall’approccio politico del “rosso” Thaksin, un noto uomo d’affari multimiliardario e magnate delle telecomunicazioni ma esterno all’élite bangkokiana che fino ad allora aveva avuto il controllo sulla politica del paese.
Thaksin si è reso conto che l’unico modo per uno sconosciuto come lui di sfondare in politica era quello di portare le esigenze del popolo al centro dell’attenzione. Questo portò a galla una serie di problematiche sociali fino ad allora lasciate nell’ombra, e dando dunque vita a dibattiti che l’élite non poté che vedere come fumo negli occhi. Un colpo di stato nel settembre del 2006 per sbarazzarsi di Thaksin quindi, poi oltre un anno di legge marziale. Una nuova vittoria dei “rossi”, rimpiazzati poi da Abhisit, nominato all’unanimità dal parlamento. Un regime del terrore, portato avanti tramite una censura drastica che, mano nella mano con la legge di lesa maestà, è andato avanti chiudendo stazioni radio, siti internet e giornali dell’opposizione, arrestando giornalisti e accademici, sfociando nel bagno di sangue con cui, il maggio scorso, l’esercito ha messo fine alle proteste delle camicie rosse, scese in piazza a chiedere nuove elezioni.
In ultimo, novità dell’anno scorso, un’intermittente guerra di confine con la Cambogia allo scopo di “riprendersi” quattro chilometri e mezzo quadrati di terra, disseminati di mine antiuomo. Una guerra inutile per entrambi i paesi (vedi questo articolo sui motivi della guerra per un tempio). È dunque davvero difficile pensare che, dopo tutto questo, basterà una vittoria elettorale perché Phuea Thai possa finalmente governare. Difficile credere che un’élite istruita all’estero si arrenderà così facilmente al volere di un popolo costituto per la maggiore di poveri e di gente di campagna, visti da loro come rozzi e ignoranti. Ma il primo ministro Abhisit, laureato ad Oxford come ogni buon rampollo bangkokiano, conosce bene dove sta il limite – quello formale, si intende – tra legittimità e dittatura. Fino ad adesso, il suo governo, nominato dal parlamento, è stato legittimo.
Ora che il suo mandato è arrivato alla fine, non concedere elezioni significherebbe dittatura completa: viatico spiacevole per un giovane politico come lui che ha tutte le carte in regola per giocare un ruolo di primo piano nella politica tailandese del futuro. Come si arriverà però, alle elezioni? Alcuni giorni fa, mentre i leader rossi Jatuporn e Nisit venivano messi nuovamente in galera dopo un anno di cauzione, Pracha, un altro rappresentante di Phuea Thai, usciva sanguinante dalla sua macchina trivellata da colpi di pistola. Qualche giorno fa è poi arrivata la notizia secondo la quale, per un problema tecnico, il Ministero degli interni avrebbe smarrito due dei tre backup dei database contenenti tutte le informazioni sui documenti di identità nazionali.
Le conseguenze di questo piccolo problema sono chiare: incapacità di stampare liste degli elettori e impossibilità di prevenire la contraffazione di documenti di identità. Gli scenari possibili, poi, sono tra i più vari. Dovessero vincere nuovamente i rossi, un colpo di stato sarebbe la soluzione più facile: dopotutto le Thailandia è abituata ai rovesciamenti politici. Le scaramucce con la Cambogia stesse potrebbero essere un’altra pedina pronta a scattare in caso d’emergenza; l’esercito tailandese è tradizionalmente dalla parte dell’élite e non ci sarebbe niente di meglio di un governo incapace di relazionarsi con la propria difesa per giustificare un nuovo e violento passaggio di potere. Sarebbe altrettanto interessante vedere che cosa capiterà dovessero essere i democratici – il partito capitanato da Abhisit – a spuntarla.
La lezione di democrazia che hanno impartito ai rossi dopotutto è quella che è: chi mostra più muscoli – non chi vince le elezioni – ha il diritto di governare la Thailandia.
[Immagine tratta da http://thailand-truthvoice.blogspot.com]