Architetti italiani a Pechino

In by Simone

Sono almeno cinquanta gli architetti italiani che vivono a Pechino. Lavorano per commitenti cinesi e si scontrano quotidianamente con una mentalità e un modo di lavorare molto diverso da quello a cui sono abituati. Alcuni di loro ci raccontano conflitti e compromessi con caratteristiche cinesi. Il diario da Pechino di Peace Reporter.
"Vuoi vedere qualcosa di tipicamente cinese? Ecco i funghi lungo le strade di Pechino. Sono gli sfiatatoi dei vapori del riscaldamento. Di solito i fumi escono dai tombini. Hanno avuto la bella idea di ricoprirli con questo allegro manufatto, con il risultato che questo si surriscalda, la vernice comincia a colare, cade a pezzi, e le maestranze sono continuamente costrette a rimetterlo in sesto. Poi ci sono i led ‘secondo caratteristiche cinesi’. Qui, lungo la Jianguomen, ci sono queste torri che dovrebbero illuminarsi di notte. Non sono mai riusciti a farlo completamente perché i led sono pessimi e ce n’era sempre qualcuno bruciato. Allora hanno lasciato perdere ed è tutto buio."

La delusione dell’architetto, quasi il trauma. John Salamini è a Pechino da sei anni, ha visto decine di cantieri, poi si è dedicato al design di interni. Infine, scoraggiato, si è buttato sull’import-export di vino. Molto semplicemente, della via cinese all’architettura non ne poteva più. I suoi progetti venivano continuamente modificati in corso d’opera senza che gli si dicesse nulla; i materiali che erano di fatto utilizzati al posto di quelli che aveva scelto lui lo mortificavano quotidianamente.

Gap culturale o semplicemente cose fatte male: trucchetti per arraffare il più possibile dei nuovi developer che cavalcano il pacchetto di stimoli del 2008, quello che puntava molto sulle costruzioni?

Il centro del potere cinese, quando si parla di architettura e urbanistica, sono i design institute (jiànzhù shèjì yánjiūyuàn), come il Biad di Pechino: gigantesche istituzioni che, sole, possono dare le autorizzazioni ai progetti. Le migliaia di professionisti accorsi da tutto il mondo per cavalcare il boom delle costruzioni cinesi devono fare i conti con loro, oltre che con i committenti privati, naturalmente.

"Alla fine ti muovi in un rapporto triangolare e devi affrontare due tipi di conflitto", dice Eugenia Murialdo, capitata qui per lavorare con un grande studio e poi messasi in proprio. "Quello con i privati è più facile, quello con i design institute più difficile. Ma per me sono conflitti che arricchiscono parecchio. Del resto, quale Paese offre agli architetti le stesse opportunità della Cina?"

Lo sa bene Lu Xiaojing, che ha lavorato tanto all’estero ma poi è tornata in Cina proprio per cogliere le nuove opportunità: "I design institute servono a tradurre tutte le proposte in direzione della cultura cinese. Sono arrivati molti architetti stranieri, ma non capiscono bene di che cosa ci sia bisogno qui. Per esempio, da noi si creano aree specifiche dove si concentra una determinata funzione: industria, commercio, residenziale, e così via. A voi sembra un eccesso che provoca ripetitività, ma questo è normale in una città così grande. In tal modo anche i servizi e le infrastrutture necessarie a quella determinata funzione si concentrano e il sistema diventa più efficiente. Nel commercio, per esempio, la gente sa dove trovare determinati prodotti."

John, apocalittico, non è esattamente dello stesso parere: "I design institute sono il braccio armato dei developer. Dovrebbero fare la traduzione fisica del tuo design ma di fatto servono a far scivolare il tuo progetto architettonico verso l’edilizia, perché non impongono standard. In Europa, quando fai un progetto, scrivi i dettagli dei materiali: la verniciatura deve essere così, le lamine cosà, eccetera. In Cina no: tutto viene trasferito nel mercato, dove l’imprenditore è totalmente libero di risparmiare su materiali, tranne che sulla struttura che deve ovviamente stare in piedi, altrimenti passi dei guai. La speculazione edilizia si basa su questo. Eppure i cinesi sanno costruire: L’esempio? Ecco i palazzi governativi, perfetti anche nei dettagli. Hanno gli infissi, non si sgretolano nel giro di qualche anno. Per il resto, la Cina è la grande recita della modernità e la sua architettura trasformata in edilizia è una rappresentazione teatrale. Guarda i nuovi villaggi di villette fuori Pechino: sembrano set dei western di Sergio Leone."

"Noi occidentali lavoriamo molto a livello di concept, mettiamo già i dettagli nel progetto – sostiene Eugenia – loro progettano solo la struttura, il ‘cubo’, e poi si vedrà cosa aggiungerci, molto spesso secondo l’arte del tappabuchi. Un mio amico architetto dice che se si vuol far crollare la Cina (probabilmente anche alla lettera) bisogna mettere un embargo sul silicone. Il punto è che loro trasferiscono quella che per noi è la progettazione nella lavorazione in cantiere. Ideano un modello generico e poi fabbricano tutto sul posto perché in un contesto in cui il lavoro costa poco, conviene trasferire la lavorazione proprio lì, dove magari il pilastro te lo fa un operaio generico. Questo garantisce anche più flessibilità, ma è soprattutto una questione di costi. Il problema è che funziona tutto benissimo finché si tratta di cantieri d’eccellenza, dove vedi squadre di lavoratori specializzati in uniforme, tutti con il caschetto uguale. Quando ti trasferisci nelle migliaia di cantieri in cui lavora una manodopera non specializzata, la qualità crolla. Questo pesa tantissimo soprattutto nel design d’interni. Però attenzione: i cinesi imparano velocemente, ditte che facevano interior design banale sei anni fa, oggi si sono completamente trasformate."

"Questa è edilizia, non è architettura – ribatte John – Infatti, chi non ha bisogno di denaro, in Cina non ci viene. Frank Gehry e Renzo Piano dicono: ‘Tu il mio progetto non lo tocchi’. E qui non ci mettono piede. La situazione è tale perché a quelli che vengono chiamati nobilmente developer non interessa costruire qualcosa che rappresenti una cultura. Sia in epoca maoista che in quella turbocapitalista, gli hanno insegnato a rimuovere il passato. Quindi hanno un’identità deprivata, per cui gli preme solo il marketing, l’involucro, e la faccia dell’architetto occidentale che ci mette la firma. Ma del discorso culturale che ci sta dietro, non gli importa nulla."

"Per me invece è un problema di conflitto culturale – continua Eugenia – Per un grosso progetto nel Dongbei, il nostro studio ha lavorato con un supervisore, un professore di scultura di Tianjin. Ci porta sul cantiere e ci troviamo in una valle dove le ruspe stanno scavando e con l’esplosivo stanno letteralmente tirando giù una montagna. Il nostro scultore-supervisore stava cambiando la morfologia del paesaggio. Lui, come se nulla fosse, nel mezzo del caos e del rumore, ci chiede se non avvertiamo l’energia del luogo, il fluire dell’acqua: grazie, il fiume stava facendolo lui con la dinamite."

"La filosofia cinese, la tradizione culturale profonda, è indissolubilmente legata alla natura – osserva Xiaojing -. Ma anche l’azione dell’uomo è parte della natura, quindi l’uomo può trasformarla, migliorarla." Ancora Eugenia: "In Italia avevamo fatto il progetto della cantina Antinori, un’idea molto particolare: linee di legno orizzontali nella campagna e funzioni interrate. Un committente cinese l’ha visto e si è entusiasmato, perché hanno gusto per i progetti evocativi. Solo che vedono Antinori e poi ti chiamano affinché tu gli faccia invece il castello simil-Champagne con i puttini svolazzanti. Questo perché hanno gusto, ma gli è più facile comunicare con gli stereotipi e alla fine quello che conta è il mercato. Allora devi trovare dei compromessi, litigare, vivere questo conflitto culturale, che però ti arricchisce."

"Ma che cultura – insiste John – la Cina che mi piace è quella di 2000 anni fa perché ha un senso e un pensiero. Se devo imparare qualcosa dalla Cina odierna guardo le maestranze: gli orafi, gli artigiani della giada e certi artisti. D’accordo, producono direttamente per il mercato, ma hanno capacità tecniche eccezionali. Perché mantengono maestria? Perché hanno raggiunto prezzi altissimi e quindi possono permetterselo. Non guardo invece all’architettura, che è il covo dei pirati."

"Come al solito gli occidentali non capiscono la Cina – ribatte Xiaojing -.Una grande acciaieria del Jiangsu sta costruendo il suo quartier generale a Urumqi, nello Xinjiang. Io cerco di recepire le loro richieste e mi ritrovo in una sala con soli uomini, tutti che fumano. Non siamo ancora a livello di progetto, siamo al concept. Siccome sono cinese, capisco il background culturale sul quale devo muovermi. Stiamo parlando di un progetto da ottomila metri quadri con uffici, sale congressi e altre funzioni integrate. Per prima cosa ho proposto la forma di una nave, gli ho detto: ‘Voi siete come la ciurma di una nave, è lo spirito della vostra azienda’. È passata. Poi gli ho proposto una montagna: ‘Siamo nello Xinjiang, quindi si integra nel paesaggio e poi dà l’idea dell’imponenza’. Passata pure quella. Infine naturalmente le specialità del Jiangsu: la lavorazione della seta e i giardini artistici, come quelli di Suzhou. Tutti entusiasti. Adesso dovrò sviluppare questa idea che integra nave, montagna, seta, giardini."

Il dibattito – o forse il conflitto – continua. Alla faccia del "linguaggio universale" dell’architettura.

* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.