Anche le Filippine disertano la cerimonia del Nobel

In by Simone

Lo scorso maggio Benigno Noynoy Aquino III fu eletto presidente delle Filippine con la promessa di caratterizzare il proprio mandato per la lotta all’impunità e il rispetto dei diritti umani. Domani quello di Manila sarà uno tra i 19 governi che diserterà la cerimonia di consegna del premio Nobel per la Pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, condannato a 11 anni di carcere per aver chiesto riforme democratiche in Cina. Considerate una delle più vivaci democrazie dell’Asia, le Filippine hanno ceduto alle pressioni del governo di Pechino, da settimane impegnato in una campagna diplomatica affinché il maggior numero di Paesi diserti l’appuntamento di Oslo. Pressioni cui, per motivi diversi, hanno ceduto per primi Russia, Kazakhstan, Cuba, Marocco e Irak. Cui negli ultimi giorni si sono aggiunti anche Colombia, Tunisia, Arabia Saudita, Pakistan, Serbia, Sri Lanka, Iran, Vietnam, Afghanistan, Venezuela, Egitto, Sudan e Ucraina, come confermato martedì dal comitato norvegese per il Nobel.

Molti temono che il prossimo Nobel possa essere assegnato ai propri prigionieri politici e di coscienza. Altri hanno ceduto alle minacce di possibili ripercussioni economiche o nei rapporti diplomatici con la potenza cinese in ascesa, oggi terzo partner commerciale delle Filippine dopo Stati Uniti e Giappone. Ufficialmente, come ha detto il portavoce del ministero degli Esteri filippino, Eduardo Malaya, l’ambasciatore di Manila a Oslo non parteciperà alla cerimonia perché in viaggio per “impegni presi in precedenza”. Come sottolineato dalla stampa dell’arcipelago, l’assenza è tuttavia legata alla volontà di Aquino di non urtare ulteriormente la Cina. Le relazioni tra i due Paesi risentono della strage del 23 agosto quando nella capitale filippina otto turisti di Hong Kong furono presi in ostaggio da un ex poliziotto che chiedeva di riottenere il proprio lavoro e furono uccisi dopo un fallito blitz delle forze di sicurezza.

“Siamo stupiti e delusi dalla decisione delle Filippine, un Paese che si vanta di difendere i diritti umani e oggi volta le spalle alla lotta non violenta di Liu Xiaobo”, ha detto Elaine Pearson, vicedirettrice per l’Asia dell’associazione americana Human Rights Watch. Una scelta che sembra contraddire le promesse di cambiamento e il sostegno dato dal presidente filippino -figlio dell’ex capo di Stato e oppositrice al regime di Ferdinando Marcos, Cory Aquino- al rilascio della leader birmana, Aung San Suu Kyi, libera dal 7 novembre dopo 18 mesi trascorsi agli arresti domiciliari. Contraddizioni enfatizzate in un commento di Carlos Conde di ‘Asian Correspondent’: “Aquino non ha ancora fermato la campagna dell’esercito contro gli attivisti di sinistra e non ha liberato i 43 medici e infermieri di Morong (fermati illegalmente dai militari perché sospettatati di aiutare un gruppo ribelle) perché, ha detto il presidente, il processo è ancora in corso. Ma allo stesso tempo ha concesso la grazia ai militari accusati di aver ordito un colpo di Stato contro il suo predecessore, Gloria Macapagal Arroyo, mentre erano ancora sotto processo".

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