Il caso Chen incombe sul dialogo tra Cina e Usa

In by Simone

In un clima di crescenti tensioni la Cina e gli Stati uniti si incontreranno per un dialogo bilaterale. Fra gli argomenti da trattare figurano il Mar cinese meridionale e la guerra cibernetica. E intanto riesplode il caso di Chen Guangcheng, l’attivista cinese perseguitato che ieri ha abbandonato l’ambasciata statunitense. Sono iniziati ieri, 2 maggio, i colloqui fra gli Stati uniti e la Repubblica popolare cinese con il dialogo strategico ed economico che aprirà la strada agli incontri del segretario di stato americano Hillary Clinton e del segretario al tesoro Timothy Geithner con le loro controparti cinesi.

I vertici politici dovranno vedersela con un clima internazionale che è andato progressivamente deteriorandosi, e su alcuni temi sarà veramente difficile trovare un punto di incontro. Come per esempio sulla questione del Mar cinese meridionale e orientale, con l’America che ha cercato di rafforzare le sue alleanze con Australia e Filippine.

In proposito è bene ricordare che ci troviamo nel pieno di una crisi internazionale tra Pechino e Manila.

Il caso è scoppiato l’8 aprile, quando alcuni pescherecci cinesi sono stati individuati dalle autorità filippine nei pressi della secca di Scarborough, nel Mar cinese meridionale.

Manila ha inviato la Gregorio del Pilar – la sua più massiccia nave da guerra, poi ritirata a favore della guardia costiera – ad ispezionare la zona. I marinai filippini non hanno però potuto arrestare gli equipaggi a causa dell’intervento della guardia costiera cinese.

Da allora i pescatori hanno abbandonato la zona, ma le due marine non hanno smesso di fronteggiarsi.

L’episodio fa parte di una controversia più estesa, che riguarda la sovranità del Mar cinese meridionale e vede protagonisti molti paesi della regione.

Non è stato possibile, ad oggi, trovare un accordo per dirimere la selva di diritti accampati dai vari governi, dietro ai quali si nascondono l’interesse per le risorse naturali della zona e annosi problemi legati al nazionalismo cinese.

È opinione comune che alle spalle delle Filippine – pronte a affidare una potenza molto più grande di loro – ci sia proprio Washington.

A ricordarci dell’interesse americano per Manila, un alleato di lunga data dell’America, ci sono state le esercitazioni di guerra congiunte del 15 aprile. La Cina, che aveva già intimato agli Stati uniti di non immischiarsi nel Mar cinese meridionale, non ha gradito per nulla.

E le tensioni non si esauriscono sui mari, ma si infittiscono anche online, dove crescono i timori per la cosiddetta "guerra cibernetica”. La rete viene infatti sempre più considerata uno spazio da difendere, se necessario anche militarmente.

In questo settore le accuse si sprecano. Il caso più eclatante è stato quello di Google, che nel 2010 dichiarò di aver subito degli attacchi mirati agli account di politici e attivisti cinesi. Washington non si sbilanciò, ma tutti pensarono immediatamente a Pechino.

Nel marzo di quest’anno, poi, la Northrop Grumman Corp, una ditta specializzata in difesa, ha redatto un rapporto nel quale si evidenziavano le crescenti capacità delle forze armate cinesi in termini di guerra cibernetica, lanciando l’allarme per le infrastrutture statunitensi.

Ancora più recenti sono i fatti che hanno coinvolto il governo australiano e il gigante delle telecomunicazioni Huawei, escluso da uno dei più vasti progetti di broadband della storia sulla base di “preoccupazioni per la sicurezza nazionale” da parte dell’intelligence australiana.

Non è tutto. A far salire ulteriormente la temperatura del dibattito c’è ora il caso di Chen Guangcheng, avvocato cinese e attivista fuggito dagli arresti domiciliari. E, ora, riapparso.

Dopo la sua fuga e l’uscita del video trasmesso da Boxun, delle sorti di Chen si sapeva poco. Si era diffusa una voce secondo la quale si trovava all’ambasciata americana di Pechino, ma l’amministrazione Obama non si era pronunciata in merito.

Il presidente americano si era limitato a rispondere alle domande con un "ovviamente sono a conoscenza delle notizie sulla situazione in Cina, ma non ho intenzione di fare una dichiarazione sulla questione”.

Poi, nel pomeriggio del 2 maggio, Xinhua ha annunciato che Chen ha abbandonato l’ambasciata americana, specificando che lo avrebbe fatto “di sua volontà”.

Secondo quanto emerso nelle ore seguenti, Chen è stato traferito dall’ambasciata americana all’ospedale di Chaoyang (un distretto della capitale) per delle visite mediche, accompagnato niente meno che da Gary Locke, l’ambasciatore statunitense.

Un funzionario americano – rimasto nell’anonimato – ha dichiarato che Chen non avrebbe mai chiesto un visto per gli Stati uniti.

La sua versione, però, si scontra con le dichiarazioni rilasciate all’Associated Press da Zeng Jinyan, secondo la quale Chen “ha detto che i suoi desideri erano totalmente diversi, ma ha dovuto accettare perché nessuno può proteggere la sua famiglia”.

La questione rischia di creare imbarazzo per entrambe le parti, anche perché Chen è piuttosto celebre – era lui l’attivista che Christian Bale voleva andare a trovare quando è stato bistrattato da alcuni sgherri locali – e la sua fuga è stata ampiamente raccontata dai media internazionali.

Quelli cinesi si erano tenuti in disparte, evitando di esprimersi su un caso che il Partito, evidentemente, considera scottante.

Un’ eccezione è stato il Quotidiano del popolo quando il 2 maggio, giusto prima che Chen lasciasse l’ambasciata, ha scritto: “Nei media occidentali Chen rappresenta una patata bollente per le autorità cinesi.

Ora sta mettendo Washington a disagio. Chen, a differenza di altri dissidenti che hanno realizzato astratti obiettivi dei diritti umani in Cina, ha molte denunce circostanziate riguardo la governance di base del paese.

È arrivato all’ambasciata americana da Linyi, nello Shandong, e ora questi problemi sono entrati nella sfera d’importazione degli Stati Uniti.”

La testata di Stato concludeva dicendo che “l’Occidente ha dato tutta la colpa alle autorità cinesi per la questione Chen Guangcheng. Ora si dice sia nell’ambasciata degli Stati Uniti, che si è dimostrata essere una svolta drammatica.

Vediamo come il governo degli Stati Uniti sarà in grado di soddisfare sia i media occidentali sia lo stesso Chen.

E, in effetti, neanche Washington sembra essere esattamente a suo agio. Non è una sorpresa, perché alcuni esperti avevano già avvertito di come la fuga di Chen costituisse una gatta da pelare per entrambi i governi.

L’analista Joseph Cheng Yu-shek, professore presso la City University di Hong Kong, ha dichiarato al South China Morning Post che Washington vorrebbe evitare che la polemica metta in ombra i colloqui.

"Il governo degli Stati Uniti comprende pienamente che l’incidente ha messo in imbarazzo le autorità cinesi… e non vuole si pensi che abbia intenzione di strofinare sale sulla ferita", aveva detto Cheng.

Anche Jean-Philippe Beja, storico e sinologo dell’istituto di studi politici di Parigi, è convinto che gli Stati Uniti si trovino in una posizione scomoda, perché pur non volendo offendere la Cina, sono stati finora costretti a difendere Chen.

E non è chiaro se queste problematiche siano state risolte, anche solo in parte, dal “ritorno” dell’attivista.

Il portavoce del ministero degli esteri cinese ha rilasciato una dichiarazione nella quale afferma che il governo cinese è “fortemente deluso” dal modo in cui le autorità americane hanno gestito la vicenda.

Pechino ha anche chiesto che venga condotta un’indagine con l’auspicio che i funzionari dell’ambasciata coinvolti vengano puniti.

Insomma, non è certo un buon inizio per un incontro che, già fin dall’inizio, sembrava molto complicata.

[Foto Credits: worldwide-connect.com ]

* Michele Penna è nato il 27 novembre 1987. Nel 2009 si laurea in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali con una tesi sulle riforme economiche nella Cina degli anni ‘80-’90. L’anno seguente si trasferisce a Pechino dove studia lingua cinese e frequenta un master in relazioni internazionali presso l’Università di Pechino. Collabora con Il Caffè Geopolitico, per il quale scrive di politica asiatica.