The Leftover of the Day – La faccia più bella

In by Simone

Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
18 febbraio 2010, 17:23
Crisi d’identità

Giriamo per Firenze. Siamo a Piazza della Signoria, si guarda intorno sconfortato: “Odio i giapponesi!”, mi dice in italiano. E in italiano gli rispondo: “E dai, esagerato!”. Ci andiamo a sedere in un caffè all’aperto e insiste: “Remember: I like the idea of Japan, but I don’t like Japanese”. Mi viene da sorridere e sorrido solidale. In fondo lo capisco: quante volte dico io le stesse cose sull’Italia? Poi sono italianissima comunque, come lui è giapponese, per quanto sia o si atteggi da occidentalizzato. C’è poco da fare.
Mi viene in mente la chiacchierata di qualche giorno prima con G. Amitrano. Mutatis mutandis, le stesse parole: solo che il centro del discorso era la critica verso l’Italia e la difesa del Giappone. Come assistere a un balletto, in cui i danzatori si scambiano posto di continuo, la musica invece resta coerente con il tema di fondo: l’esterofilia e l’insofferenza per il proprio paese.
Con Amitrano si parlava degli stereotipi usati per raccontare il Giappone. Nel mentre mi chiedevo: ma non sarà che anch’io giro intorno agli stessi luoghi comuni?
In una maniera o nell’altra, difficile fare i conti con la propria identità e con quella altrui.

18 febbraio 2010, 17:25
L’arte di dire no (per chi ce l’ha)

Un’altra cosa che ho imparato è l’arte di non dire no. Solo che non l’ho imparata troppo bene.
Siamo sul treno per andare a Firenze. Apro il mio portatile davanti a me. Dopo pochi minuti, lui mi offre gentilmente di usare la pennetta Internet per controllare la posta dell’ufficio, ma io sto facendo tutt’altro, ho fretta e non ho alcuna voglia di perdere tempo. Così provo una prima resistenza: “Grazie, non c’è bisogno, ho già la mia, dopo la controllo”
Subito vengo affondata.
“Ma quelli sono soldi tuoi, non dell’azienda”
“Sì, ma ce l’ho già installata”
“Anche questa si installa subito”
Ne provo un’altra: “Beh, magari entrano in conflitto, la mia è Vodaphone”
“Ma no, sicuramente no, questa la metti e si autoinstalla”
Non so più come uscirne e accetto. Quando insiste così è come trovarsi accerchiati da una comitiva di siculi troppo ospitali.
Faccio finta per qualche minuto, poi gliela ridò.
“Già fatto?”, mi dice.
“Sì”, rispondo con una certa nonchalance
“E la password?”
Forse divento fucsia, ma non posso più tornare indietro: “Non ce n’è stato bisogno: si è collegata da sola!”
Pessima bugia. Per il resto del viaggio e pure per il ritorno non ho nemmeno il coraggio di tirare fuori la mia pennetta e di collegarmi. E la prossima volta me ne devo ricordare: lui si segna tutto! Penso già di spiare la password alla sua prossima connessione…

18 febbraio 2010, 17:28
Geniale!

Io ho visto questo video e mi sono esaltata, lui affatto (dice che ce ne sono milioni di robe così in Giappone: ci credo, ma lo stesso mi piace).

18 febbraio 2010, 18:01
La faccia più bella

Non ho ancora mai raccontato un’altra delle buffe (talvolta solo ridicole) corvées che spesso mi toccano.
Le foto e la capacità di scattarle sono sempre stata una sua ossessione, fin dal primo giorno. Io non amo troppo fare le foto, quando posso evito, ma ormai mi porto quasi sempre appresso la macchinetta per senso del dovere. Tuttavia, invece che ritrovarmi fotoreporter, mi capita più spesso di essere collocata nel ruolo della “distrattrice”. Qual è la funzione della “distrattrice”? Esattamente quella indicata dalla parola: deviare l’attenzione del soggetto da fotografare. Il ruolo è più codificato di quanto uno possa normalmente pensare: come scandito da un tempo preciso e dalla traiettoria del fotografo (lui), cui io devo affiancarmi (sul lato destro o sinistro, a seconda dei casi). Alla cavia del momento viene esplicitamente richiesto di guardare me e rispondere alle mie domande. Così mi trovo a improvvisare interviste senza capo né coda, che partono da un punto e precipitano nel nulla, che si inceppano su improvvisi silenzi di imbarazzo e di assenza di domande o su repentini cambi di posizione del fotografo.
Ieri è stato peggio che mai: agli Uffizi, sull’impalcatura issata nella Sala della Tribuna dove lavorano i restauratori – tra loro c’è una giapponese. A lui non piace nessuna delle foto che sta facendo e la fa cambiare costantemente di posizione, e noi con lei. Lei addossata al muro ricoperto di madreperla mimando l’attività di pulitura, lui inginocchiato con la macchinetta, io direttamente seduta per terra con una mano che regge il caschetto e l’altra che gesticola. Provo a fare qualche domanda sul restauro, ma incontro due ordini di problemi: 1. c’è la responsabile del sito che non vuole si dica nulla, nemmeno sui materiali usati; 2. la giapponese non è, per così dire, molto loquace. Dopo altri cambiamenti, un rischio sventato di caduta dall’impalcatura, una botta in testa parata dal caschetto, altre decine di scatti, lui finalmente dice: “Le ultime!”. Ma sono le più dure: ora la vuole sorridente. Le si appiccica a pochi centimetri dal viso e io nemmeno faccio più domande, cerco solo di farla ridere. Ci manca poco che mi metto a farle le boccacce come se avesse 4 anni. Quando usciamo, lui mi confessa: “Quella ragazza ha proprio una faccia poco fotogenica! Non riuscivo a fare una foto decente”. Direi che me ne sono accorta (e poi pensavo: ma se uno non è fotogenico, non è fotogenico, punto! Mi pare poco “giornalistico” cercare la faccia più bella, o no?)

*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)