Sebbene sotto le solite mentite spoglie del gergo politico cinese, è molto probabile che si sentirà parecchio parlare di sostenibilità nel corso del Terzo Plenum del XVIII Congresso del Partito Comunista. Il grado di interconnessioni tra ambiti diversi crea un effetto domino. Intervenire su una delle problematiche, rischia di mettere in moto la macchina dalle conseguenze impreviste. Ma che si dovrebbero in realtà prevedere.
Che la si declini alla maniera ‘armoniosa’ di Hu Jintao, si indulga nell’ideale di una ‘prosperità diffusa’ o che si tenga il passo della propaganda con la nuova hit del momento, il ‘sogno cinese’ – copy right di Xi Jinping – la sostanza non cambia perché non cambiano i problemi che il paese ha estrema urgenza di risolvere.
Emergenze che, in una Cina che si regge su un sistema di governance dove la divisione tra leve del potere economico e leve del potere politico è più ‘creativa’ che mai, finiscono per potere essere tutte bene o male condotte allo stesso unico monito a uno sviluppo più sostenibile, appunto.
Lo si capisce leggendo i media di partito, ascoltando i discorsi dei leader, spulciando i report dei centri di ricerca, la sostenibilità è diventata una bandiera, usata spesso in maniera strumentale, quando risulta parlare chiaramente dei problemi. Una bandiera di ‘correttezza’, dietro cui nascondersi quando i temi in ballo sono troppo scomodi da affrontare o da usare come ariete nei grandi consessi internazionali. Un uso a volte strumentale, ma c’è da ammettere che oggi siamo lontani dalla versione riduttiva che riconduceva l’intera faccenda sostenibile alla sola questione della protezione dell’ambiente, che per altro in Cina se la passa davvero male.
La classe politica cinese è profondamente consapevole del suo potenziale distruttivo: diseguaglianze sociali, squilibri regionali, questione demografica e di genere, riforma agricola, liberalizzazioni, mancanza di welfare, bolla finanziaria, possono avere sulla tenuta dell’intero sistema. E a questo va ricondotta la morsa repressiva contro la corruzione, riconosciuta giustamente come il cuore pulsante di un sistema ormai al collasso.
Con tutto il suo apparato di think tank governativi, da anni studia, legge, si inspira a ciò che succede fuori per trovare soluzioni valide per i propri problemi interni, che andranno ovviamente insaporiti con spezie locali. E che si tratti di una sostenibilità con ‘caratteristiche cinesi’ o meno, basta che qualcosa davvero si inizi a fare in Cina, sempre che non sia troppo tardi o troppo complesso.
Per complessità si intende, il grado di interconnessioni tra ambiti diversi ormai raggiunto dalle questioni sensibili in Cina. Fatto, questo, che crea un effetto domino. Intervenire su una delle problematiche prima citate, rischia infatti di mettere in moto la macchina dalle conseguenze impreviste, ma che si dovrebbero in realtà prevedere.
I primi campanelli d’allarme sono suonati qualche giorno fa. Allo strascico di commenti che ha seguito la notizia della recente presentazione del piano di emergenza per il controllo dell’inquinamento, varato dal Consiglio di Stato, allo scopo di allentare la dipendenza cinese dal carbone (ferma a quota 70 %) nel nord est del paese, si è aggiunto il monito degli esperti.
Rimpiazzare il carbone con il gas naturale sintetico (SNG), come previsto dal piano, è infatti processo ad alto dispendio d’acqua. Non proprio l’ideale in un paese dove, in alcune regioni -Xinjiang e Mongolia interna dove dovrebbero sorgere gli impianti di conversione – le riserve idriche sono vicine al collasso. Insomma mettendo una toppa da una parte, se apre subito un’altra all’estremo opposto.
Ed è questo, in definitiva, il motivo dell’insistenza della Cina sul tema dell’innovazione, che unita a una buona dose di capacità di analisi ad ampio spettro, è una qualità ormai indispensabile alla nuova leadership il cui potere si è andato sostanziando in questi ultimi mesi. Da questo dipende infatti il destino della Cina, e di noi tutti.