Soccorso russo

In by Gabriele Battaglia

Le attuali difficoltà di Mosca sono l’occasione per vedere alla prova la partnership tra Cina e Russia, una delle grandi storie dei nostri tempi e di quelli futuri. Pechino aiuterà il vicino di casa secondo la consueta strategia win-win, puntando all’internazionalizzazione del renminbi e alla sicurezza energetica. Vladimir Putin può argomentare che l’Occidente stia attentando all’indipendenza della Russia, paragonando il proprio Paese all’orso che lotta per liberarsi dalla gabbia, perché un amico discreto ma di sostanza gli copre le spalle.
È la Cina, che andrà in soccorso dell’amico-partner-dirimpettaio qualora ce ne fosse bisogno. Parola del ministro degli Esteri Wang Yi, che però non ha offerto dettagli e spiegato come Pechino possa intervenire sulle due ragioni fondamentali che determinano la fuga di capitali e quindi il crollo del rublo: il calo del prezzo del petrolio e le sanzioni decise dall’Occidente Usa-centrico.

Sia inteso, la Cina premette che Mosca può farcela benissimo da sola. Pochi giorni fa, il portavoce degli Esteri di Pechino, Qin Gang, aveva dichiarato che la Russia “ha sufficienti riserve e risorse” per risolvere la crisi del rublo in picchiata.
Tuttavia, gli amici si vedono nel momento del bisogno e il “soccorso russo” procede spedito e neanche troppo sottotraccia. Mentre la Russia puntella la propria economia vendendo parte delle proprie riserve in oro (forse, così sembrerebbe suggerire il calo del prezzo del metallo giallo sui mercati), la Cina aiuta il vicino bisognoso per mantenere intatte le proprie ambizioni di superpotenza del futuro: Mosca non può fallire, ci sono troppi interessi in comune.

L’aiuto è concesso secondo costume con uno sguardo alle priorità, sia future sia immediate, in linea con il principio del “win-win”. Così, invece di buttare soldi in un “piano Marshall” secondo caratteristiche russo-cinesi, la Cina pensa di espandere il “currency swap” tra i due Paesi, ampliare la propria quota di investimento nella costruzione dei futuri gasdotti siberiani ed aumentare le importazioni puntando soprattutto sull’alta tecnologia che arriva da Mosca.

Dunque, sull’onda dei due grandi accordi sul gas siglati recentemente, è probabile che il currency swap tra i due Paesi venga esteso. In pratica la Cina comprerà rubli, tenendone su il valore, mentre a sua volta la Russia aumenterà la propria dotazione in renminbi, contribuendo così all’internazionalizzazione della moneta cinese. I due Paesi hanno già sottoscritto una “linea-swap” di tre anni e da 150 miliardi di yuan (24 miliardi dollari) a ottobre, un accordo che può essere espanso con il consenso di entrambe le parti.
Attualmente, la Cina ha swap con 28 Paesi e sta diversificando da tempo la composizione valutaria delle proprie enormi riserve, equivalenti a 3.890 miliardi di dollari. È un fatto economico e anche politico: all’orizzonte, un mondo sempre più multipolare.

Al di là dell’aspetto finanziario, le preoccupazioni cinesi di lungo periodo vanno a parare sull’energia.
I due accordi porteranno complessivamente in Cina 68 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Sono noti i dettagli di quello firmato a maggio (da 38 miliardi di metri cubi), in base ai quali Mosca intascherà 400 miliardi di dollari e rifornirà la Cina per 30 anni attraverso un gasdotto “orientale” che attraverserà la Siberia e arriverà nelle province nord-est della Cina (e si dice che potrebbe proseguire verso Corea e Giappone). L’altro gasdotto (da 30 miliardi di metri cubi), quello “occidentale” lanciato durante il summit Apec di inizio novembre, passerà invece per i monti Altay e finirà in Xinjiang, nel “Far West” cinese.
Ora Pechino teme che la Russia, a causa della crisi, non riesca a costruire i grandi tubi, che dovrebbero essere pronti per il 2017. Ed è quindi probabile che aumenti la propria quota di partecipazione nell’impresa comune o che conceda a Mosca un prestito agevolato e finalizzato alla grande opera.

Se il “soccorso russo” sembra gravitare principalmente attorno al gas, l’altro polo della cooperazione è quello militare. All’inizio di quest’anno, Russia e Cina hanno condotto un’esercitazione navale congiunta nel Mar Cinese Orientale, e secondo l’agenzia di stampa russa Tass, per il prossimo anno sono previste altre manovre, una nel Pacifico e una nel Mediterraneo.
Ma al di là del fatto strategico, ai cinesi viene l’acquolina in bocca soprattutto pensando alla tecnologia militare da importare: i due Paesi sono in trattativa per la vendita dei jet russi più avanzati – i Su-35 – dei missili anti-aerei S-400.

Cina e Russia condividono del resto su molti punti una stessa visione del mondo. C’è da costruire una grande Eurasia, l’integrazione politico-culturale-economica che viaggerà sulla rinnovata Via della Seta, dal Pacifico all’Atlantico, da Pechino ad Anversa passando per Mosca e Berlino.
È l’idea di un mondo multipolare che metta fine all’unilateralismo Usa. Ci sono dietro enormi interessi ma anche uno scarto culturale rispetto ai presunti "valori universali" che arrivano da Occidente, con l’idea di non intromissione negli affari interni altrui sbandierata dall’asse russo-cinese in netta contrapposizione all’eccezionalismo Usa: l’idea della nazione “eletta” con la grande missione da compiere.

Detto dei punti in comune, la partnership non è tutta rose e fiori. Due su tutti, i problemi.
Da parte russa, se Mosca poteva fare la parte del fratello maggiore ai tempi di Stalin e Mao, oggi i ruoli si sono ribaltati. È palese che Pechino è la figura forte della coppia e la Russia teme una colonizzazione economica che potrebbe anche diventare umana: a Mosca si paventa l’invasione di immigrati cinesi nelle desolate province siberiane.
Da parte cinese, si guarda sempre e comunque a Washington. Se è vero che Pechino spinge per la fine dell’unilateralismo Usa, è altrettanto vero che la Cina vuole essere riconosciuta come superpotenza alla pari dall’establishment americano, più che puntare a un mondo realmente multipolare. Lo richiede sia la necessità di continuare la “crescita pacifica”, sia il progetto politico di “grande sogno cinese”: la fine di quel percorso che dal secolo dell’umiliazione (la subordinazione coloniale della Cina nell’Ottocento e primo Novecento) vuole concludersi con il ritorno della Cina allo status di “centro del mondo”. È questo il senso del “nuovo modello di relazioni tra grandi potenze” che la diplomazia cinese cerca di imporre a quella Usa. E in questa visione, c’è forse un Putin di troppo.