Sinologie- Uiguri, stranieri in terra propria

In Sinologie by Redazione

L’attentato del 28 ottobre 2013 in piazza Tiananmen, rivendicato sul web da un gruppo separatista denominato Turkestan Islamic Party (TIP), ha riacceso l’attenzione del mondo sulla remota provincia occidentale cinese dello Xinjiang. L’attacco è stato provocato da tre persone di etnia uighur, un popolo turco e musulmano che abita la regione e che storicamente manifesta resistenze contro il governo cinese. Sono seguiti nel 2014 episodi di tensione, i più sanguinosi a Kunming, capoluogo dello Yunnan, e a Urumqi, capitale dello Xinjiang. La situazione ha iniziato a deteriorarsi già col clamoroso attentato nel 2009, sempre a Urumqi.

Gli anni ’90 avevano conosciuto un revival della religione islamica e uno slancio per i movimenti autonomisti e indipendentisti nell’area. A livello globale il XXI secolo si è aperto con la lotta al terrorismo internazionale, che oggi torna a dominare la sfera mediatica con l’espansione dello Stato Islamico: dopo l’11 settembre 2001 anche la Cina ha preso parte alla guerra al terrore, specialmente nello Xinjiang dove ha attratto con successo l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, sostenendo di essere vittima di una minaccia terroristica di matrice islamica proveniente dagli uighur.

Lo Xinjiang occupa un sesto del territorio cinese, ma ospita poco più dell’1% della popolazione. Confina con otto paesi e nel 2008 è stato il secondo centro produttore di greggio nella RPC. Qui si trova la quarta concentrazione mondiale di turchi e la metà dei circa 23 milioni di musulmani della RPC. Definita “perno dell’Asia”, centro commerciale e culturale sulla Via della seta, la regione è tornata alla ribalta con le profonde trasformazioni che a partire dagli anni ’80 hanno interessato il contesto cinese, regionale e internazionale.

Per l’importanza strategica ed economica lo Xinjiang è parte integrante del “nuovo grande gioco” delle potenze in Asia centrale; ogni sviluppo nella regione ha immediate ripercussioni sul fragile equilibrio di quest’area geopolitica: il “problema dello Xinjiang” ha acquisito una dimensione internazionale. Quali sono le cause interne del conflitto etnonazionale al di là del focus della stampa cinese sull’aspetto radicale? Nella prima parte dell’analisi si esaminano l’identità uighur e il ruolo del territorio, delle dinamiche sociali e demografiche.

In sintesi, la presenza cinese sul territorio è discontinua. Nella storiografia uighur i cinesi sono visti come usurpatori e la lontananza geografica, insieme alla configurazione del territorio, hanno reso difficile il controllo della regione. Lo Xinjiang non ha mai costituito un’omogenea realtà politica e culturale e la Cina ha strumentalizzato la frammentazione per ottenere l’assimilazione. Tuttavia l’istituzione della Regione autonoma uighur dello Xinjiang – di cui viene esaminato lo statuto giuridico per mettere in luce la mancanza assoluta di autonomia de-facto – ha rafforzato l’identità comune attraverso l’insistenza sulla categorizzazione etnica e contribuito alla creazione dell’etnonazionalismo uighur. La tesi utilizza teorie sulla formazione dell’identità etnica e dimostra quanto la lettura dell’etnicità nei discorsi dominanti (retorica del multinazionalismo cinese) e l’istituzionalizzazione di un territorio dedicato alla minoranza può investire le differenze culturali di significato politico.

La coscienza comune uighur si è solidificata a causa delle politiche demografiche cinesi, che hanno ribaltato l’equilibrio etnico a favore degli han attraverso una migrazione interna orchestrata dall’alto e condotta grazie al bingtuan, organo paramilitare che controlla territorio, apparato di sicurezza, economia. La seconda parte dell’analisi esamina come l’incontro con gli han abbia creato malcontento non solo per la difficile convivenza con un mondo culturale opposto, ma anche per il trattamento preferenziale del governo verso i cinesi. S

ono esaminate le politiche economiche, culturali e religiose che hanno marginalizzato gli uighur, definiti “strangers in their own land” da Gardner Bovingdon. Il “Grande balzo ad ovest” per sviluppare le regioni interne della RPC ha favorito un boom economico sostenuto dal settore statale da cui sono rimaste escluse le minoranze, come dimostra l’analisi delle disparità nei redditi, nelle assunzioni e nelle condizioni di vita: le aree al sud, a maggioranza uighur, sperimentano gravi situazioni socioeconomiche rispetto ai centri settentrionali a maggioranza han. La crisi ambientale causata dallo sfruttamento del territorio e l’epidemia di HIV hanno fatto esplodere il malcontento.

Si aggiunge la repressione culturale e religiosa inaugurata dopo il biennio 1989-1990 (Tiananmen, incidente di Baren nello Xinjiang): il partito ha iniziato a temere che l’autonomia portasse a rivendicazioni politiche. Attraverso le politiche linguistiche ed educative il governo ha tentato di acculturare gli uighur. Anche la libertà religiosa è inesistente nella regione, dove i costumi tradizionali e i culti sono proibiti o stigmatizzati. L’Islam è controllato dallo stato tramite apposite istituzioni. Con la campagna “strike hard, maximum pressure”, intensificata dopo il 2001, le pratiche religiose sono state associate ad attività criminali.

Un esame dei rapporti di ONG come Human Rights Watch mette in luce la persistente violazione dei diritti umani: processi sommari, sparizioni forzate, tortura, sentenze di massa, arresti arbitrari. Nel 2001 la riforma del codice penale per accogliere misure antiterroristiche ha ampliato l’uso della pena di morte e reso più vaga e discrezionale la definizione stessa di terrorismo. Un’analisi approfondita di policy riconduce le disparità a rigide categorie etniche nella gestione delle differenze culturali. Allo slogan dell’armonia si contrappone un nazionalismo han che ha condotto gli uighur ai margini dello stato-nazione. Il fallimento dell’integrazione sarebbe all’origine della resistenza uighur contro la RPC.

L’ultima parte tenta di rispondere a una domanda: qual è la portata del separatismo uighur e con quali modalità di svolge. La maggior parte degli abitanti opta per una resistenza moderata e difficilmente appoggerebbe progetti nazionalisti. Gli uighur politicamente impegnati sono soprattutto autonomisti: temono la distruzione della propria identità e vorrebbero più autodeterminazione, rafforzando la legge sull’autonomia; gli assimilazionisti, una minima parte della popolazione, desiderano integrarsi e premono per l’abbattimento delle barriere socioeconomiche; tendono a perdere la loro identità a favore della “più avanzata” cultura han.

Il secessionismo è difficile da studiare per l’impossibilità di effettuare sondaggi tra l’opinione pubblica. Esistono separatisti moderati, giovani istruiti con aspirazioni democratiche che mantengono contatti con la diaspora uighur all’estero, e componenti radicali legate a organizzazioni terroristiche, alcune secolari, altre islamiche. Gli estremisti sembrano il gruppo più modesto, ma è indubbio che siano aumentati dalla fine degli anni ’90.

La diaspora uighur all’estero ha generato un’identità transnazionale solida che ha sensibilizzato l’opinione pubblica internazionale, prestigiose ONG e governi, su questioni quali le violazioni dei diritti umani, i disagi economici, la crisi ambientale. Questa tesi ha studiato siti web collegati a un network di circa 25 organizzazioni indipendentiste moderate con sede in Europa, Stati Uniti e Asia Centrale che supportano l’indipendenza del Turkestan, uno stato-nazione uighur.

Una di queste è il World Uighur Congress con presidente la carismatica Rebiya Kadeer, considerata una terrorista in Cina. Sembra che il cyber-separatismo riesca talvolta a raggiungere lo Xinjiang aggirando la censura. Le disuguaglianze utilizzate nelle argomentazioni del movimento sono le stesse indicate nella prima parte della tesi.

Si esamina poi il ruolo di due ideologie esterne nel conflitto: panislamismo e panturchismo. I movimenti della diaspora sono laici e si ricollegano all’ideologia sovranazionale del panturchismo, che sostiene una discendenza ed eredità comuni di tutti i popoli turchi dell’Asia Centrale. La Turchia ha sempre concesso asilo politico ai rifugiati dello Xinjiang, che hanno formato qui le basi del movimento nazionalista in esilio. Tuttavia le relazioni diplomatiche della Turchia con la Cina hanno condizionato la capacità d’azione del movimento che ha spostato il suo centro d’azione in Europa e Stati Uniti.

L’altra grande corrente che dall’Asia Centrale è penetrata nello Xinjiang è il panislamismo. La tradizione del secolarismo turco e dell’Islam moderato di matrice sufista danno credito alla tesi che ridimensiona il ruolo della religione nell’identità uighur rispetto al nazionalismo di matrice etnica, specie del radicalismo. Tuttavia a partire dagli anni ’80 con l’apertura delle frontiere col Pakistan nuove concezioni dell’Islam sono penetrate nello Xinjiang. L’apertura al mondo incoraggiata dal governo ha agevolato la diffusione della fede musulmana, specie nelle oasi del sud.

Nel 1986 alcuni uighur si unirono alla jihad anticomunista in Afghanistan. La diplomazia islamica cinese ha prodotto un effetto boomerang alimentato dalla successiva ondata repressiva della religione. La rivolta studentesca di Yining nel 1997, repressa nel sangue, è il primo evento a ricevere copertura mediatica internazionale. Pechino ha inasprito la campagna “strike hard” e la religione è stata associata al crimine del separatismo. La tesi prende in esame studi che analizzano gli incidenti violenti denunciati dal governo cinese e attribuiti a gruppi islamici fondamentalisti vicini ad Al-Qaeda.

Quello ritenuto più pericoloso è ETIM (Turkestan Islamic Party), ma un confronto tra le fonti cinesi e accreditate fonti strategiche internazionali ridimensiona la natura terroristica degli eventi dal 1990 al 2011. E se oggi l’ISIS recluta nello Xinjiang, il nodo fondamentale è il gap fra intenti e reale capacità d’azione di gruppi la cui esistenza è documentata ma i cui mezzi sembrano molto limitati.

L’indipendenza delle ex repubbliche sovietiche ha creato un vuoto di potere e la ripresa di legami economici, politici e culturali transfrontalieri. L’indipendenza dei popoli turchi dall’URSS ha alimentato in molti uighur la fiducia in un destino condiviso, più che una concreta mobilitazione politica. Dall’Asia Centrale sono giunti influssi laici socialisti che hanno ispirato i movimenti studenteschi degli anni ’90. Contemporaneamente l’Islam politico si faceva strada in Afghanistan e movimenti terroristici come MIU e Hizb ut-Tahrir diffondevano ideologie anche nello Xinjiang.

La Cina ha cercato di arginare queste tendenza con la Shanghai Cooperation Organization (SCO): migliorando la sicurezza sulla sua Via della seta, Pechino cerca sia ritorni economici che la stabilizzazione dei confini occidentali e attraverso incentivi finanziari lega a sé i partner centroasiatici nella cooperazione contro il “terrorismo uighur”; la “carta uighur” è utilizzata nei rapporti diplomatici e i diritti umani sono subordinati a logiche d’interesse.

Se la cooperazione antiterroristica contro le “tre forze del male” – terrorismo, separatismo, estremismo – ha ridotto la capacità di azione sia per i separatisti radicali che per la diaspora nazionalista, ha favorito l’internazionalizzazione e la pubblicizzazione del movimento indipendentista. L’11 settembre 2001 è una data chiave anche per lo Xinjiang: la Cina ha costruito la nuova narrativa del terrorismo uighur, con un’intensa campagna politica e diplomatica.

Sean Roberts sostiene che la Cina abbia utilizzato la lotta al terrorismo per legittimare la repressione interna. Washington ha seguito una linea altalenante nel sostenere Pechino, emersa con la gestione contraddittoria della questione dei prigionieri uighur a Guantanamo: gli USA faticano a gestire la partnership con la Cina da un lato e le rivendicazioni per i diritti umani dall’altro.

Secondo molti esperti la lotta al terrorismo di Pechino è una “profezia che si auto avvera”. Questa tesi segue la teoria della sicurezza umana come determinante del conflitto etnico e del terrorismo: dal 2008-2009 le violenze manifestano una radicalizzazione che va di pari passo con l’escalation della repressione. La narrativa del terrorismo ha poi aggravato la situazione interna, alimentando gli scontri tra uighur e han. Infine, la Cina mette seriamente a rischio la sua legittimità internazionale privilegiando una concezione di sovranità basata sul primato della sicurezza e della non ingerenza che oggi è superata per molti versi.

L’interrogativo sulle cause scatenanti del terrorismo di matrice religiosa è centrale anche nel caso cinese. Secondo Nicholas Bequelin, studioso di Xinjiang e ex collaboratore di Human Rights Watch, è errato pensare al separatismo come un concetto rilevante per leggere la situazione politica nello Xinjiang. Data l’impossibilità di una reale secessione lo Stato dovrebbe ridimensionare questa “minaccia fantasma” che domina i media, alimenta la polarizzazione etnica, previene una diagnosi dei problemi di policy e dà il primato ad un apparato di sicurezza responsabile della diffusa violazione dei diritti umani.

Una secessione è improbabile, anche perché gli uighur non sono uniti in questo obiettivo, né esso è condiviso dalle altre minoranze che abitano la regione. Ma le linee di demarcazione etnica che attraversano la Cina si approfondiscono laddove la politica non riesce a gestire le differenze e le congiunture economiche negative. Urge un cambio di governance per evitare che la situazione si deteriori.

*Rebecca Arcesati, rebecca.arcesati[@]gmail.com nata a Tortona nel 1992, ha conseguito la laurea in Mediazione linguistica e culturale presso l’Università degli Studi di Milano nel 2014 e ha vissuto in Cina per studio e per lavoro. Studia Scienze internazionali all’università degli Studi di Torino e cura lo spazio China Analysis per il blog Spazio Economia.

**Questa tesi è stata discussa il 19/12/2014 presso l’Università degli Studi di Milano. Relatore: prof. Francesco Montessoro. Una versione integrale della tesi si trova qui.