Sinologie – Partito Comunista Cinese: questione di legittimità

In Sinologie by Redazione

Stabilire quanto il regime abbia effettivamente il supporto dalla popolazione cinese non è cosa semplice: l’opinione pubblica viene misurata attraverso sondaggi che, nel contesto di un paese autoritario come la Cina, possono essere inaffidabili. Questi strumenti, spesso utilizzati dal partito stesso, si prestano a falsificazioni a priori dal momento che, per paura di attirare le attenzioni delle autorità, c’è il rischio che i rispondenti preferiscano falsificare la propria opinione. Ad ogni modo, volendo prendere per affidabili i dati ufficiali, e considerando che il PCC non viene legittimato attraverso il sistema di elezioni dirette, la domanda è: da dove trae la legittimità necessaria a governare?

Il dibattito sulla legittimità del partito è tutt’ora aperto tra studiosi e accademici cinesi e non, ed ha generato almeno due approcci al problema.

Il primo, che chiameremo ‘approccio culturalista’, sostiene che il partito trae la propria legittimità dalle radici confuciane della cultura cinese, e dalla tradizione politica ad esse associata. Tong Yanqi, ad esempio, trova che il concetto moderno di legittimità non sia poi così differente da quello tradizionale di tianming (il mandato celeste) e che, in quanto tale, venga supportato da tre pilastri fondamentali: dei leader con una solida integrità morale, che dovrebbero usare la giustizia come metro di giudizio, e questo include anche il campo della tassazione; l’amministrazione dello stato attraverso pratiche paternalistiche e fondata sui valori morali di stampo confuciano; e, infine, la responsabilità dello stato nei confronti del benessere dei propri cittadini, che spesso si traduce in aiuti di natura economica.

Il quadro tracciato da Tong Yanqi, che richiama alla mente anche lo slogan comunista wei renmin fuwu ‘servire il popolo’, potrebbe giustificare, almeno in teoria, l’esistenza del regime a partito unico. Come suggerito anche da Chu Yunhan, la validità di questo approccio potrebbe essere rinforzata dal fatto che la cultura cinese, oltre che radicata nella tradizione confuciana, è anche di natura collettivista, ponendo gli interessi della comunità e dello stato in primo piano rispetto a quelli individuali. Questo giustificherebbe l’esistenza di un regime che, in quanto autoritario e paternalistico, sarebbe in grado di governare in maniera efficiente uno stato multietnico grande quanto la Cina. Per quanto questo punto di vista possa essere suggestivo, fallisce nel tener conto del fatto che i pilastri morali che dovrebbero sostenere questo tipo di legittimità sono stati più volte traditi. Si prenda ad esempio in considerazione il fatto che le politiche economiche promosse da Pechino hanno contribuito a creare e far aumentare le ineguaglianze tra regioni e ceti sociali.

Il secondo approccio che giustifica la legittimità del regime è fondato sulla istituzionalizzazione dei processi e meccanismi interni al partito. Soprattutto all’inizio della sua storia come guida della nuova Cina, il PCC ha utilizzato motivazioni di tipo nazionalistico e patriottico per giustificare la propria posizione: il partito comunista era stata l’unica forza in grado di guidare la Cina fuori da un periodo caratterizzato dall’oppressione feudale e dall’imperialismo dei paesi occidentali che, a partire dalla metà del ‘800, con una serie di trattati iniqui avevano trasformato il Celeste Impero nel dongya bingfu ‘il grande malato dell’Asia’ . Secondo la narrativa ufficiale, il partito comunista era riuscito a restituire dignità ad un paese devastato e lacerato dalla guerra civile e dalla guerra di resistenza al Giappone, scontrandosi non solo con quest’ultimo, ma anche con l’altro grande partito, il Kuomintang. Tuttavia, col passare del tempo e con il cambiamento delle condizioni interne ed esterne al paese, i leader del partito hanno dimostrato di essere consci del fatto che il nazionalismo non può più essere utilizzato come fonte primaria di legittimità. Anzi, dare troppo peso a questo aspetto potrebbe addirittura essere dannoso in quanto potrebbe rompere l’equilibrio che si è venuto a creare tra le varie minoranze etniche.

Bruce Gilley e Heike Holbig, in uno studio del 2009 sull’argomento, hanno notato come il nazionalismo abbia effettivamente perso importanza nel discorso politico come elemento legittimante diventando invece un fattore di rischio. In mancanza di questa fonte di legittimità, e in mancanza di legittimazione diretta attraverso le elezioni, il PCC ha puntato all’istituzionalizzazione dei propri processi e comportamenti; in questo modo quello che succede all’interno del sistema segue delle regole formali e informali che hanno contribuito a rendere il regime più accettabile, a differenza di quanto accadeva in passato quando la direzione politica veniva impartita dalla forza carismatica dei leader.

Come fa notare Andrew Nathan in uno studio del 2003, queste regole vengono applicate a diversi livelli e processi del partito a partire dalla successione dei leader più importanti. I due leader più longevi del partito, Mao Zedong e Deng Xiaoping, sono rimasti alla guida del partito fino al giorno della loro morte e avevano il potere di scegliere o scartare il proprio successore a proprio piacimento. Tre esempi bastino per illustrare fino a che punto arrivasse la capacità di questi potenti leader di influenzare processi istituzionali: il primo successore designato da Mao, Liu Shaoqi, venne fatto arrestare proprio per ordine del Grande Timoniere, e successivamente morì in prigione. Lin Biao, che si pensava sarebbe potuto essere un possibile candidato, morì invece in un incidente aereo sospetto. Quello che invece divenne il successore vero e proprio di Mao, Hua Guofeng, venne invece rimosso da Deng Xiaoping, il quale rimosse anche due dei successori da lui precedentemente designati, ovvero Hu Yaobang e Zhao Ziyang. A partire dal 1997, invece, un tacito consenso ai livelli più alti della leadership di regime ha permesso ai funzionari più alti di occupare la loro posizione fino a che non avessero compiuto i 70 anni d’età, un traguardo seguito dalla pensione. Jiang Zemin, il segretario di partito all’epoca in cui questa regola è stata stabilita e che potrebbe essere considerato un’eccezione, aveva 71 anni quando questa prassi venne stabilita, tuttavia, una volta completato il proprio mandato nel 2002, lasciò l’ufficio come previsto.

Il processo di istituzionalizzazione di un regime passa anche attraverso i criteri secondo i quali scegliere le persone che ricopriranno i ruoli di maggior rilievo. Nel periodo rivoluzionario i criteri principali per questa scelta erano la fedeltà del candidato alla linea ideologica del partito e nei confronti del segretario, così come la sua associazione ad una delle diverse fazioni dominanti.

Le competenze e le conoscenze del candidato non venivano prese in considerazione o, comunque, non venivano poste in primo piano. Oggi, nonostante considerazioni sull’affiliazione ad una fazione siano comunque importanti, la meritocrazia ha un peso ancora maggiore. Il cambiamento in questo senso è stato impresso dall’ideologia denghiana delle quattro trasformazioni, o sihua, che impone di considerare la fedeltà all’ideale rivoluzionario (geminghua), così come l’età (nianqinghua), il bagaglio culturale (zhishihua), e le competenze tecniche (zhuanyehua) di ogni candidato, e solo chi soddisfa i requisiti per ognuno di questi aspetti può sperare di raggiungere i gradini più alti della leadership di partito.

La riforma in senso istituzionale ha coinvolto anche la governance del paese in senso stretto con l’approvazione di leggi che hanno reso la leadership di partito ad ogni livello maggiormente responsabile delle proprie scelte di fronte al popolo, dando a quest’ultimo maggiori diritti e maggior spazio di partecipazione politica: è il caso dell’allargamento del diritto di voto nelle elezioni al livello dei villaggi o del nuovo diritto penale. Nonostante grossi problemi rimangano, soprattutto a livello locale, la concessione di piccole libertà viene riconosciuta dalla popolazione e ripagata con alti livelli di gradimento e approvazione.

L’ultimo passaggio nella riforma del regime comunista cinese è quello che riguarda l’evoluzione dell’ideologia. Il PCC ha una lunga tradizione di adattamento ideologico iniziata già quando il Marxismo-Leninismo venne adattato per soddisfare le particolari condizioni della Cina dei primi del ‘900. In un periodo in cui non esiste più la necessità di portare avanti una rivoluzione e in cui il ruolo del governo è quello di mantenere il benessere economico del paese, non avrebbe senso lasciare che l’azione politica venga guidata da principi ideologici rivoluzionari.

Per questo motivo l’ideologia del partito è cambiata in modo tale da poter allargare la propria base di supporto a nuove classi sociali per poter rispondere al meglio a nuovi bisogni. Il primo grande passo in questo senso è stato fatto con l’introduzione dei sange daibiao, le tre rappresentanze. Con questo nuovo principio ideologico venne permesso agli imprenditori di diventare membri del partito, il quale quindi si faceva rappresentante di questa nuova classe sociale e delle ‘forze produttive più avanzate del paese’. La partecipazione attiva degli imprenditori alla vita politica del paese garantì al partito una nuova fonte di legittimazione; tuttavia, l’attenzione data alle forze produttive del paese portò ad uno scompenso nello sviluppo economico e nella distribuzione della ricchezza che rischiava di minare la posizione del regime.

Per questo motivo con Hu Jintao la teoria delle tre rappresentanze divenne più ‘popolare’, e l’obiettivo ideologico di questa nuova era divenne quello di creare una ‘società socialista armoniosa’. La trasformazione delle fondamenta ideologiche del PCC è un processo ancora in corso, e negli ultimi anni ha visto emergere nuovi concetti come il zhongguo meng, il sogno cinese che, ancora una volta, cerca di ridirezionare l’attenzione ideologica di un partito che deve sempre trovare nuove fonti di legittimità.

Considerando gli sforzi fatti dal PCC per allargare la propria base di supporto e non perdere legittimità, la domanda da porsi ora è quanto questi tentativi siano stati efficaci, e soprattutto, se esistono delle minacce all’egemonia del regime comunista. Sicuramente la minaccia principale è che le fonti di legittimazione vengano meno. In questo caso bisogna introdurre un terzo approccio, solitamente marginalizzato in quanto poco consistente, ovvero l’approccio economico.

Questa punto di vista può essere associato ai due già discussi in quanto alternativamente espressione della responsabilità nei confronti del benessere generale, o come misura dell’efficacia delle politiche del partito. Per quanto pochi, esistono sostenitori dell’idea che la performance economica cinese è la fonte primaria di legittimità del PCC e che, finché l’economia continuerà a crescere, il partito potrà mantenere una stretta salda sulle istituzioni nazionali. Tuttavia, tralasciando la discussione sulla sostenibilità di questa idea, è importante considerare i legami esistenti tra lo sviluppo economico, le sue conseguenze e una possibile perdita di legittimità del partito. La Cina ci ha stupiti per la sua abilità di mantenere un tasso di crescita economica a due cifre e, nonostante negli ultimi anni sia rallentato, il suo tasso di crescita rimane intorno al 6%. Una cifra molto più alta della media globale.

Questa rapida crescita economica pende come una spada di Damocle sulla leadership cinese. Da un lato ha sicuramente garantito al governo l’approvazione popolare; tuttavia, dall’altro, ha creato altissimi livelli di disuguaglianza sia tra ceti che tra regioni. Il tutto con il beneplacito governativo: è famosa la frase di Deng Xiaoping “Lasciamo che una parte della popolazione si arricchisca per prima”. Alcuni ricercatori, come Wu Xiaogang, sostengono che il popolo cinese sia particolarmente tollerante verso le ineguaglianze economiche per motivi culturali: nella tradizione cinese, infatti, la ricchezza dipende dalle abilità dell’individuo e chi non riesce ad arricchirsi non è sufficientemente capace o probabilmente non si impegna abbastanza.

Tuttavia è innegabile che negli ultimi anni le autorità cinesi sono state testimoni di un crescente numero di proteste. È vero che queste proteste solitamente sono su scala abbastanza ridotta e avvengono soprattutto a causa di scarse condizioni di lavoro, scarsa protezione sul posto di lavoro o sfruttamento. È anche vero che la rabbia e la frustrazione della popolazione viene solitamente diretta nei confronti dei governi e delle autorità locali, i quali hanno il dovere di applicare le direttive di Pechino e farsi carico diretto del welfare della popolazione. Questo però spesso non succede, dando vita all’idea che il governo centrale si preoccupi della popolazione passando leggi che potrebbero essere efficaci se solo i governi locali le applicassero correttamente.

In realtà questo non è del tutto vero come dimostra il caso delle ultime modifiche fatte alla legge sul lavoro: questa prevede salari minimi che variano a seconda della regione, che però spesso sono del tutto inadeguati a soddisfare i bisogni primari. In combinazione con questa insoddisfazione nei confronti dei governi locali esistono anche crescenti livelli di infelicità soprattutto tra gli abitanti urbani. Un rapporto di Brookings del 2015 ha riportato che gli abitanti delle città e quelli con livelli di educazione più alti manifestano problemi di salute mentale e depressione molto più spesso che abitanti delle aree rurali. Considerando che il 58% della popolazione cinese vive in città è facile vedere come una combinazione di questi due problemi (disuguaglianza e infelicità) possano effettivamente costituire un problema serio per il regime. Come se non bastasse, non si può dare per scontato che la frustrazione della popolazione sarà diretta ai governi locali per sempre: man mano che il supporto e la fiducia verso i livelli più vicini di governo vengono erosi è molto probabile che anche la fiducia nel governo centrale verrà intaccata.

Un altro fattore da non sottovalutare è la possibilità sempre più diffusa di accedere a spazi di condivisione online. Nel 2017 il 54% della popolazione cinese aveva accesso a internet, un numero che cresce di anno in anno e che raggiunge picchi più alti nelle aree più industrializzate e urbanizzate. Così come lo sviluppo economico, anche la maggiore diffusione di internet può essere considerata come una lama a doppio taglia nelle mani del regime: poter accedere a spazi di condivisione online è sicuramente segno che il dibattito politico cinese è stato allargato ad una larga fetta della popolazione che, anche se in modo sempre controllato, può esprimere la propria opinione su certi argomenti di natura politica. Dall’altro lato, però, Internet è anche fonte di informazioni che spesso vengono censurate dai media tradizionali, inclusi casi eclatanti di corruzione o abuso di potere. Allo stesso tempo Internet dà la possibilità di esprimere la propria disapprovazione e malcontento nei confronti della classe politica.

Questo viene spesso fatto in modo satirico attraverso immagini in un certo senso evocative: è rimasta nella memoria l’immagine di un granchio con tre orologi che gioca sull’assonanza tra le parole ‘armonia’ e ‘granchio di fiume’ (和谐 / 河蟹 entrambe lette hexie) e su quella tra ‘tre rappresentanze’ e ‘tre orologi’ (三个代表 / 三个带表). È recente la notizia della censura delle immagini di Winnie The Pooh per l’associazione fatta tra l’orsacchiotto e il presidente Xi Jinping.

Per quanto riguarda le fonti di legittimità già sfruttate dal PCC, rimane aperta la questione se queste possano in un certo senso ‘esaurirsi’ e diventare invece delle minacce. In questo senso è solo possibile fare delle supposizioni, ma comunque è uno scenario poco probabile. Il processo di istituzionalizzazione sembra procedere a pieno regime nonostante alcuni eventi recenti potrebbero gettare l’ombra del dubbio sul futuro prossimo.

Nel 2018 l’Assemblea Nazionale del Popolo ha ratificato l’abolizione del limite di mandato per la carica di presidente della Cina, virtualmente permettendo al presidente Xi di rimanere alla guida del paese a vita, anche se in secondo piano rispetto al segretario di partito. Tuttavia tra i commentatori e gli analisti è diffusa l’opinione che questo difficilmente accadrà e la sola idea di una presidenza a vita ha causato opposizione tra le élite cinesi. Come già visto, le fondamenta ideologiche vengono rimodellate ed espanse per poter rispondere meglio al cambiamento dei tempi, e anche in questo caso sembra altamente improbabile che questa fonte di legittimità si esaurisca.

Per concludere, recenti eventi nella guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina fanno pensare che quest’ultima potrebbe rivitalizzare una fonte ormai quasi esaurita: quella del nazionalismo. Così come accadde negli anni ’50, la Cina si trova ad affrontare un nemico esterno che minaccia la sua integrità economica e può, quindi, sfruttare questa tensione per focalizzare il sentimento nazionalista contro gli Stati Uniti. Non è un caso che recentemente la TV di Stato, CCTV, abbia trasmesso una lunga serie di film a tema nazionalista e in cui gli USA figurano come nemico nazionale.

Di Luca Tinnirello*

**Luca Tinnirello sta conseguendo una laurea magistrale in East Asian Business presso l’ University of Sheffield. Precedentemente ha vissuto in Cina per 3 anni, dove ha conseguito una laurea in traduzione presso la Southwestern University of Finance and Economics di Chengdu, e dove ha insegnato italiano e ha iniziato a lavorare come traduttore. I suoi interessi principali, oltre le dinamiche politiche della leadership cinese, riguardano anche l’efficacia delle strategie di nation branding cinese relativamente all’Unione Europea.