SINOLOGIE – Le parole proibite

In by Simone

La tesi Parole Proibite: L’Informazione nella Repubblica Popolare Cinese tra Libertà e Censura descrive lo stato della libertà di espressione e del diritto di informazione nella Repubblica popolare cinese analizzandone anche le ripercussioni economiche. Le sue conclusioni sono tutt’altro che ottimistiche.
Con il passare del tempo i divieti sono diventati sempre più blandi: dall’assoluta mancanza di libertà si è giunti alla situazione attuale, in cui la possibilità di esprimere la propria opinione è un dato di fatto. Tuttavia, questa evoluzione riguarda Europa e America: Medio Oriente, Federazione Russa, buona parte dell’Africa e dell’Asia, ivi compresa la Repubblica Popolare Cinese, sono ancora lontane da questo traguardo.

La libertà di espressione e di stampa sono il primo passo per ottenere altri diritti. Attraverso libri, giornali e Internet possono essere perorate cause altrimenti dimenticate, si può cercare di avvicinarsi alla verità. È la base per vivere in uno Stato democratico, il fondamento per una società civile responsabile e consapevole.

Il Partito Comunista Cinese è al corrente di tutto ciò, e proprio per questo ha cercato e cerca di soffocare qualsiasi tentativo di "quinta modernizzazione", per usare le parole di Ai Weiwei: detenzioni forzate e condanne a morte sono all’ordine del giorno. Ma se in passato mantenere un regime di censura non era troppo dispendioso, adesso sta diventando sempre più difficile. Il numero crescente di mezzi di comunicazione e i contatti con i paesi occidentali stanno portando i cinesi ad essere sempre più insofferenti nei confronti del governo.

Traendo ispirazione dai grandi movimenti democratici dell’Europa novecentesca, in Cina stanno venendo alla luce svariate forme di mobilitazione e di protesta, tutte – almeno per ora – pacifiche. Se la polizia sanziona gli oppositori in modo sanguinario, questi ultimi non reagiscono allo stesso modo; al contrario, accettano le punizioni, continuando a far sentire la loro voce. La sopravvivenza di questi dissidenti è un tema oggi molto caro alle democrazie occidentali, sempre meno disposte a chiudere un occhio nei confronti del dragone.

Minxin Pei sostiene che, perché si passi da un’economia di medio reddito ad una di reddito elevato, è necessario che il regime dia ascolto alle richieste sempre più pressanti della popolazione. Soltanto così si potrà creare un nuovo patto fra Stato e lavoratori, favorendo un nuovo modello di sviluppo che congiunga crescita e sostenibilità. Il sistema cinese è imbattibile a breve termine, come sostiene, fra gli altri, Cesare Romiti, ma addirittura controproducente in una previsione di lungo periodo. Il Pcc non sembra però voler prendere atto di questa analisi in modo sostanziale, se si eccettuano alcune recenti riforme, almeno non nel futuro prossimo.

La regolamentazione del diritto all’informazione

Sin dall’antichità, il diritto in Cina è stato percepito come qualcosa di negativo. Ciò è dovuto in prevalenza alla concezione confuciana dell’essere umano, in base alla quale esso dovrebbe agire non perché costretto, bensì perché convinto della bontà dei suoi gesti. L’uomo si comporta correttamente proprio in quanto tale, di conseguenza non ha bisogno di legislatori che gli indichino la retta via. Un cittadino medio quindi non solo non conosce le basi della giurisprudenza cinese, ma nemmeno vi si avvicina.

La Cina attraversa anche un periodo contraddittorio rispetto all’epoca precedente, la cosiddetta fase dei legisti, durante la quale si finisce per cadere nell’eccesso opposto: la legge diventa parte integrante della vita quotidiana, ma più che come una tutela viene interpretata come uno strumento repressivo. Il diritto assume una connotazione malvagia, che induce i cinesi a tenersene alla larga.

L’impatto con la modernizzazione, avvenuta a cavallo fra Ottocento e Novecento, è traumatico: i contatti con l’Occidente, fino ad allora pressoché inesistenti, si intensificano all’improvviso, dando modo alla Terra di Mezzo di conoscere una realtà del tutto diversa. Tuttavia, i tentativi di assimilazione sono sporadici e riscuotono uno scarso successo: il modello cinese continua ad essere quello prevalente.

Il problema permane ancora oggi: la polizia cinese è un organo violento e a volte sregolato, preoccupato di mantenere un’immagine pulita del regime, piuttosto che di tutelare i cittadini. Con queste premesse, è facile immaginare lo stato della libertà di espressione e di informazione: praticamente inesistente. Eppure, la Costituzione cinese in questo campo si pronuncia molto chiaramente, ed è di tutt’altro avviso:

Citizens of the People’s Republic of China enjoy freedom of speech, of the press, of assembly, of association, of procession and of demonstration.
[Chapter II, The Fundamental Rights and Duties of Citizens, Constitution of the People’s Republic of China, 1982.
]

La censura di Stato, di conseguenza, è una violazione costituzionale.

È proprio a questo appiglio che si aggrappano i firmatari di Charta 08, il movimento sottoscritto da 303 fra intellettuali e cittadini pubblicato online il 10 dicembre 2008 e promulgato da Liu Xiaobo. Essi non chiedono la stesura di nuove leggi o l’introduzione di nuovi diritti, ma vogliono semplicemente che il governo cinese si attenga ai dettati costituzionali.

Il pensiero di questi attivisti è chiaro: quella che aspira a divenire, e per certi aspetti è già diventata, la seconda economia mondiale, non può permettersi un trattamento simile per la sua popolazione. Proprio la recente crescita economica potrebbe essere un possibile motore per il cambiamento: gli scambi sempre più densi con l’Occidente potrebbero accendere la miccia per un’evoluzione della libertà di espressione.

Anche l’economia interna potrebbe rivestire un ruolo niente affatto secondario. La peculiarità del mercato dei mass media cinese è quella di avere il lato della domanda modellato su uno schema two-sided, cioè composto da due attori: i lettori e gli investitori pubblicitari; il lato dell’offerta, al contrario, è interamente composto dai professionisti dell’editoria.

Dal momento che i mass media sono un cosiddetto “bene normale”, il cui consumo cresce in misura proporzionale all’aumento del Pil pro capite, negli ultimi anni essi hanno subito un’impennata, e con loro il ruolo della pubblicità. Ma in questo modo è aumentata anche l’indipendenza dei giornalisti: la necessità di accontentare una domanda sempre più pressante sta gettando i semi per un vero Stato di diritto.

Certo, il Partito non sta a guardare: una delle ultime strategie adottate è di riportare i fatti da tutto il mondo, in apparenza senza censure, ma velandoli di uno spirito xenofobo: il controllo dell’opinione pubblica si fa così più sottile e difficilmente denunciabile. Una volta instillati questi sentimenti nei lettori, infatti, i mass media si adeguano spontaneamente, proprio per non perdere terreno sul versante economico.

È un meccanismo che viene definito preach to the choir: si cerca di convincere un soggetto di un’idea che egli già condivide. Ecco che la propaganda non controlla più l’offerta, bensì la domanda: non fornisce notizie parziali, ma crea un pubblico assuefatto. È altresì vero che i cinesi sono sempre meno ingenui: se questo stratagemma poteva ancora funzionare negli anni Ottanta e Novanta, oggi le sue contraddizioni sono evidenti.

La Cina fra media, cittadini e governo
Accanto alle forme di giornalismo tradizionale, negli ultimi anni si è potuto assistere alla fioritura del citizen’s journalism: contributi virtuali che gli utenti Internet possono inserire nella rete. Questa evoluzione nel campo dell’informatica ha favorito la nascita di numerosi blog. È superfluo elencare le potenzialità di questo strumento: per la prima volta, a chiunque viene data la chance di esprimere la propria opinione.

La libertà di pensiero e di parola acquista così una diversa e maggiore valenza, diventando un fatto concreto per un numero sempre più alto di individui. Proprio grazie ad Internet, si crea un circolo virtuoso, tale per cui l’eco di questa rinnovata libertà viene amplificata e raggiunge frontiere remote.

È interessante notare come sia stato reso il termine blog in cinese: bókè, “ospite erudito”. Per estensione, indica non solo il sito Internet, ma anche chi lo utilizza. È un nome che si adatta perfettamente all’utente medio: si tratta perlopiù di giovani con un elevato livello di istruzione che abitano in città medio-grandi.

A differenza che in altri paesi, dove questa pratica si è diffusa da più tempo e su una più larga scala, in Cina il fenomeno non ha ancora raggiunto gli strati più bassi della popolazione. Ne consegue che questo pubblico élitario possiede un grande numero di informazioni approfondite. Esse a loro volta spesso provengono da altri blog, data l’inaffidabilità e la mancanza di trasparenza delle fonti ufficiali.

Le notizie più interessanti, considerate “scomode” dal regime, entrano in un circuito parallelo e si diffondono secondo una struttura capillare: partendo da un solo sito, vengono riprese da diversi internauti, che le condividono in luoghi diversi della rete, aumentandone sempre più la visibilità. Di conseguenza, l’apertura del Web è aspramente osteggiata dalle autorità, che ogni giorno trovano nuovi metodi per chiudere o oscurare svariati siti.

Un caso concreto? Furong Jiejie e Muzi Mei, soprannominate “regine del blog”, sono state rapidamente bloccate dagli organi governativi.
Tuttavia, questo modus operandi si sta rivelando controproducente: più il regime cerca di offuscare determinate idee e persone, più la loro visibilità sembra aumentare. Come sostiene Rebecca MacKinnon, ex bureau chief della Cnn a Pechino, il Partito non è più in grado di controllare i modelli a cui la società cinese dovrebbe ispirarsi.

La situazione del giornalismo tradizionale è invece più complessa: la stampa è ancora sotto stretto controllo del governo, tanto da poter parlare di Cnn effect: i media, costretti a mettere sotto i riflettori alcuni temi a scapito di altri, influenzano l’opinione pubblica e definiscono l’agenda internazionale, cancellando tutto ciò che potrebbe danneggiare il regime. L’agenzia ufficiale Xinhua è l’esempio più lampante.

Lo stesso discorso può essere applicato alla televisione, anche se i palinsesti cinesi non sono poi così conformi alle direttive del regime. Il consumismo sfrenato, il desiderio di ricchezza ed il materialismo estremo si riflettono nei programmi televisivi, a scapito dei valori morali ed ascetici tanto predicati dalla classe dirigente. Attraverso numerosi stratagemmi, come l’adozione di dialetti incomprensibili o perifrasi elaborate, si riesce sia a parlare di questo, sia a criticare il Partito e la sua incoerenza.

Per i tg, tuttavia, il discorso è ben diverso: qui le notizie devono passare il vaglio del governo, che controlla direttamente le sedi principali del giornalismo televisivo. In Cina il mestiere di giornalista, sia esso cartaceo, televisivo o online, resta quindi uno dei più scomodi e pericolosi. La mancanza della libertà di espressione e di un’adeguata legislazione che tuteli la professione ne fanno uno dei ruoli meno ambiti della società.

Conclusioni

La situazione cinese sta avendo ripercussioni sempre più pesanti sull’economia; i cittadini delle nazioni democratiche diventano di giorno in giorno più insofferenti nei confronti di un paese che non garantisce al suo popolo i diritti fondamentali, e di conseguenza i commerci ne risentono.
Se finora l’homo oeconomicus ha prevalso sul resto, la politica sempre più repressiva di Pechino sta cominciando ad allontanare gli investitori stranieri; tuttavia, non è affatto scontato che la direzione degli eventi resterà la stessa.

Infatti, la Repubblica Popolare è al secondo posto nella classifica delle potenze mondiali, e ciò è dovuto prevalentemente alle sue risorse finanziarie; adottare misure protezionistiche o cercare di isolarla potrebbe avere conseguenze devastanti. Sono soprattutto gli Stati Uniti a doversi preoccupare della questione, essendo uno dei partner commerciali più importanti per i cinesi nonché il loro principale debitore.

Un dibattito tra il Segretario di Stato di Nixon, Henry Kissinger, l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott ed il columnist del Guardian Martin Jacques non fa che confermare questa idea. I tre partono da presupposti diversi e giungono a conclusioni contrastanti, ma su un punto concordano: la Cina non può essere eliminata dallo scenario globale.

Non bisogna infine sottovalutare quello che potremmo chiamare "il versante culturale": la continuità con il passato viene vista, in piena sintonia con i dettami buddhisti, come una sorta di fedeltà e di sicurezza, mentre il cambiamento, di qualunque genere esso sia, è oscuro. Si spiega così la resistenza all’acquisizione di modelli di vita distanti dai propri: nella Repubblica Popolare, le diversità non sono fonte di innovazione e di miglioramento, ma di angoscia e di perdita di identità.

Ecco perché sembra difficile che la Repubblica Popolare adotti a breve uno stile di informazione e di giornalismo ad immagine di quello occidentale; oltre alle motivazioni economico-politiche, la cultura e le peculiarità di questa nazione tendono a frenare ogni iniziativa che rompa con la tradizione.

Le nuove tecnologie stanno cercando di invertire la tendenza, accorciando le distanze con il resto del mondo e dando voce a intellettuali e dissidenti che altrimenti rimarrebbero inascoltati; tuttavia, ci vorranno ancora anni prima che si possa assistere a delle vere rivoluzioni in questo campo.

Per il momento, la possibilità di esprimersi ed informare senza limiti resta una chimera. Basta provare a digitare le parole “libertà” e “stampa” su un qualsiasi motore di ricerca cinese per rendersene conto.

*Francesca Berneri francescaberneri[@]live.it è nata a Cremona il 23/03/1990. Dal 2009 studentessa presso il Collegio Ghislieri e lo IUSS (Istituto Universitario di Studi Superiori) di Pavia, ha conseguito la laurea triennale in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Pavia il 15/10/2012. Nel mese di agosto 2013 ha svolto attività di ricerca presso la Beijing Language and Culture University. Attualmente frequenta l’ultimo anno di laurea magistrale in Studi dell’Africa e dell’Asia presso l’Università degli Studi di Pavia.

**Questa tesi è stata discussa presso l’Università degli Studi di Pavia. Relatore: prof. Sandro Bordone.

[La foto di copertina è di Federica Festagallo]