SINOLOGIE – La prima multinazionale

In by Simone

La tesi The East India Company esamina la natura giuridica della compagnia navale britannica che a partire dal XVII secolo si è imposta come il principale strumento del colonialismo britannico nel Subcontinente indiano, in Cina e nel Sud Est Asiatico. Il monopolio commerciale esclusivo di tè, oppio, sale, seta, materie prime e manodopera locale le consentì in alcuni casi Company addirittura di sostituirsi alle amministrazioni locali.
La tesi The East India Company ha ad oggetto l’esame della natura giuridica della compagnia navale britannica che a partire dal XVII secolo si è imposta come il principale strumento del colonialismo britannico nel Subcontinente indiano, in Cina e nel Sud Est Asiatico. La tesi, in particolare, ha l’intento di esaminare la natura della presenza della Compagnia in Asia, continente nel quale essa ebbe per decenni il monopolio commerciale esclusivo di tè, oppio, sale, seta, materie prime e manodopera locale, dapprima attraverso la creazione di singole factories stanziate nei porti di interesse e, successivamente, attraverso un’attività più radicata nel territorio che in alcuni casi consentì alla East India Company addirittura di sostituirsi alle amministrazioni locali.

Costituita attraverso una “carta reale” come compagnia commerciale avente lo scopo primario di importare spezie dalle Indie Orientali, la stessa forma giuridica che la Compagnia riveste è un prodotto delle esperienze giuridiche europee, da molti riconosciuto, in realtà, anche come il primo esempio di società per azioni della storia.

Sono ben visibili nella East India Company i principi della responsabilità limitata, la necessità della maggioranza nelle votazioni assembleari, nonché una ripartizione del capitale in vere e proprie azioni, elementi, questi, tipici delle società per azioni oltre che, secondo una buona parte della storiografia, rispondenti alle esigenze della cultura occidentale e non anche alle necessità effettive che dalla permanenza in Asia sarebbero sorte.

La East India Company si presenta come una struttura profondamente organizzata, con un centro direttivo localizzato in Inghilterra e con importanti attività produttive e commerciali dislocate in Cina, India, Giappone e Sud Est Asiatico, tanto da essere considerata da una buona parte della storiografia internazionale come la prima multinazionale della storia sin dai primi momenti della sua fondazione.

Strumento di arricchimento, monopolio e controllo dei traffici della Corona nel lontano oriente, la Compagnia ha costituito un importante ingranaggio del sistema economico e finanziario britannico e, in ultima analisi, un’effettiva novità per l’Europa, assuefatta alla conoscenza di quei prodotti “esotici” solo attraverso un ben più difficile commercio con mercanti non europei.

I primi dieci anni di attività della Company furono principalmente di sperimentazione e videro l’apertura delle prime factories in oriente, dapprima a Bantam (Isola di Java) e successivamente a Hirado (Giappone). I rapporti con Cina e India furono instaurati solo successivamente e si differenziarono tra di loro non solo per tempistiche, merci e rotte commerciali ma anche per altri aspetti di carattere più soggettivo, non da ultimo, la natura della popolazione locale.

Per la Compagnia, infatti, entrare in relazione con l’Impero Cinese fu molto piu complesso che inizare la propria attività commerciali con il duro Giappone e la vivace Bantam. Gli inglesi riuscirono a entrare in contatto con la dinastia manciù solamente nel 1670, quando, al termine dell’egida commerciale olandese nella zona, la Company ricevette l’espresso invito ad instaurare rapporti commerciali con la Terra di Mezzo.

La Company, impadronitasi del porto di Canton, non senza problemi causati dai rivali francesi, olandesi, danesi e svedesi, fece rifiorire il commercio delle sete, delle porcellane e del tè, la bevanda dalle proprietà benefiche a fronte della quale i cinesi accettavano solo lingotti d’oro…fino a quando non fu scoperto l’oppio.

Questa droga, insieme ai suoi effetti collaterali, si diffuse a tal punto che un editto imperiale nel proibì la vendita. Questo, tuttavia, non bloccò la Compagnia dal contrabbandarlo per anni, ottenendo, inoltre, incredibili profitti. Nonostante gli innumerevoli tentativi della Cina di interrompere il traffico dell’oppio, i guadagni raggiunti dalla Company erano troppo alti per bloccarne il commercio, fatto questo che portò nel 1839 alla Guerra dell’Oppio che convogliò la città di Hong Kong in mano britannica.

Diversamente, per ciò che concerne l’India, i contatti furono immediatamente più forti. La Compagnia sperimentò in India un tessuto sociale dalle caratteristiche multiculturali e intrattenne relazioni con un sovrano ospitale e colto, Jahangir, l’imperatore mecenate a capo dell’impero Moghul, che gli aprì le porte dei commerci indiani con un editto imperiale.

In India, il potere commerciale della Company si instaurò più facilmente e crebbe sempre di più, fino a quando, un secolo dopo, il lento sgretolarsi della dinastia Moghul la portò ad imporsi nella realtà locale, legittimata proprio dal sovrano locale, l’imperatore Shah Alam II. Grazie alla stipula del Trattato di Allahabad del 1765, infatti, l’imperatore indiano concesse alla Company la titolarità del diwani, termine che indica il potere di gestire l’amministrazione civile e la riscossione delle imposte, nelle provincie del Bengala, Bihar e Orissa.

Traendo spunto dal caso indiano e dal caso cinese, l’intenzione principale della tesi è proprio quella di dimostrare come l’esperienza della Company se, da un lato, ha rappresentato una sfida e un esperimento commerciale ambientati tra il Capo di Buona Speranza e lo Stretto di Magellano, dall’altro, si è trasformata nei secoli in un organismo programmato, capace di entrare in contatto con le amministrazioni locali, corromperle, aggredirle e, in alcuni casi, sostituirle.

In particolare, la tesi evidenzia come la natura dell’atteggiamento monopolistico della Compagnia sia stata oggetto di grande interesse per storiografia internazionale, al punto che anche Adam Smith, nel “The Wealth of Nations”, e Karl Marx in “La Compagnia delle Indie Orientali”, hanno condotto interessanti e significative ricerche sul tema. Entrambe le ricerche, quella di Smith e quella di Marx, cercano, infatti, di evidenziare il carattere monopolistico della Company in Oriente, soffermandosi, la prima, sulla aggressività esercitata dagli inglesi sulla realtà locale, la seconda, sull’eredità che la Compagnia ha lasciato alla storia.

E infatti, secondo quanto emerge dalle osservazioni di Smith, la problematicità della Company non si manifestò tanto nei primi anni della sua esistenza, attraverso la ricerca di nuovi mercati e nelle relazioni con nuovi popoli, quanto successivamente, quando la Company arrivò a controllare nuove terre, in alcuni casi, appropriandosene, come accade con Hong Kong caduta nelle mani della Gran Bretagna con la Guerra dell’Oppio del 1839, e, in altri casi, espropriandole, secondo quanto accadde in India nel 1765 con il Trattato di Allahabad.

Più intensa, invece, l’analisi di Karl Marx che arriva a rintracciare nella Company delle forme di un capitalismo primitivo, alimentato dal mercantilismo e irrobustito dal sistema coloniale. Secondo Marx, infatti, la Company rappresenta il primo ingranaggio di una visione tutta colonialista dell’Asia, continente in cui l’azione della Compagnia sarebbe stata alimentata dalla forza della corruzione: nonostante la Compagnia si sia estinta, tuttavia, il suo spirito continuerebbe a vivere, tramandato ai posteri sotto forma dell’insegnamento dei vantaggi della collusione tra interesse privato e pubblico.

*Emanuela Hernandez hernandez.emanuela[@]gmail.com ha studiato a Roma, Madrid e Pechino. Ha scritto questa tesi durante il corso di Laurea Triennale in Giurisprudenza, poco prima di partire per la Cina, Paese in cui ha condotto ricerche presso la Beijing University of Law and Political Science e fatto uno stage presso l’Ambasciata italiana a Pechino.

**Questa tesi è stata discussa presso La Terza, Università di Roma, Facoltà di Giurisprudenza: relatore prof. Emanuele Conte.

[La foto di copertina è di Federica Festagallo]