Singapore – È morto il padre-padrone Lee

In by Simone

Lee Kuan Yew, il padre della «città Stato» Sin­ga­pore, modello eco­no­mico e poli­tico per non pochi lea­der nel mondo, è morto a 91 anni. La sua dipar­tita non gli per­met­terà di assi­stere alle cele­bra­zioni dei 50 anni della repub­blica di Sin­ga­pore, avve­nuta dopo l’indipendenza da Gran Bre­ta­gna e Com­mo­n­wealth e dopo alcuni anni «con­di­visi» con la Malesia.
Lee Kuan Yew, per­so­nag­gio intran­si­gente e auto­ri­ta­rio, è cele­brato come il fon­da­tore del «nanny State» — lo Stato balia — uno degli appa­rati buro­cra­tici più inva­sivi nei con­fronti delle libertà per­so­nali, ma in grado di diven­tare il quarto hub finan­zia­rio del mondo (da un vil­lag­gio di pesca­tori quale era).

Ordine, disci­plina, capa­cità di attrarre inve­sti­menti e l’inaugurazione di una vera e pro­pria dina­stia poli­tica. A Lee infatti, primo mini­stro per 31 anni, è seguito nell’incarico il figlio mag­giore. Niente male per il paese che si defi­ni­sce alta­mente «meri­to­cra­tico». Lee del resto lo aveva detto, in una delle sue cele­bri frasi: «Quali sono le nostre prio­rità? In primo luogo, il benes­sere, la soprav­vi­venza della gente. Poi, norme e pro­cessi demo­cra­tici che tal­volta dob­biamo sospendere».

Nel 1954 ha fon­dato il Par­tito d’azione popo­lare e quando a Sin­ga­pore venne con­cesso l’autogoverno nel 1959, divenne il primo pre­si­dente del Con­si­glio, rima­nendo in quella posi­zione fino al 1990, quando ha com­ple­tato una tran­si­zione verso «una seconda gene­ra­zione di lea­der» (rima­nendo sem­pre in famiglia).

«Se è pos­si­bile sele­zio­nare una popo­la­zione e sono istruiti e pro­pria­mente edu­cati, allora non c’è biso­gno di usare troppo il bastone, per­ché sono già stati adde­strati» ha spie­gato Lee. «È come con i cani. Li si adde­stra in modo cor­retto da pic­coli. Sanno che avranno modo di allon­ta­narsi, andare fuori a fare pipì e defe­care. No, non siamo quel tipo di società. Abbiamo dovuto adde­strare cani adulti che ancora oggi deli­be­ra­ta­mente uri­nano negli ascensori».

Nel suo libro di memo­rie, La sto­ria di Sin­ga­pore, Lee ha detto che se non avesse scelto per una linea dura in ter­mine di ordine e puli­zia, Sin­ga­pore sarebbe stata una «società più gros­so­lana, rude e cruda». In primo luogo, ha spie­gato, abbiamo «edu­cato ed esor­tato la nostra gente. Dopo che abbiamo con­vinto e con­qui­stato una mag­gio­ranza, abbiamo legi­fe­rato per punire la mino­ranza. Ciò ha reso Sin­ga­pore un luogo più pia­ce­vole in cui vivere. Se que­sto è uno «Stato balia», io sono orgo­glioso di averne pro­mosso uno».

La verità è che Sin­ga­pore ha adot­tato un modello di svi­luppo basato sul basso costo del lavoro e una minima tas­sa­zione agli inve­sti­menti stra­nieri, diven­tando uno dei paesi più ric­chi del mondo. Paral­le­la­mente ha svi­lup­pato uno straor­di­na­rio con­cetto di ordine, puli­zia e disciplina.

Una società basata sui divieti (alcuni assurdi ai nostri occhi, come ad esem­pio quelli rela­tivi ai chewing gum, vie­tati), sulle ten­sioni raz­ziali, come quelle scop­piate nel 1964 (la popo­la­zione di Sin­ga­pore è in mag­gio­ranza cinese, seguita da malesi e indiani) e sul pugno duro con­tro la stampa e chiun­que non la pen­sasse come il vec­chio padrone dello Stato Lee.

Nono­stante que­sto ieri, i lea­der mon­diali, Obama com­preso, si sono spre­cati in elogi. Ha stu­pito di meno il com­mento posi­tivo su Lee arri­vato dal boss cinese, Xi Jin­ping. Per molto tempo, negli ultimi anni, il modello di svi­luppo sin­ga­po­reano è stato guar­dato con atten­zione da Pechino e iden­ti­fi­cato come uno dei sistemi migliori per tenere insieme capi­tale, inter­vento dello Stato e una forma rigida di auto­ri­ta­ri­smo politico.

[Pubblicato su il manifesto; foto credit: abcnews.com]