Sanità in Giappone: il difficile equilibrio tra i tanti schemi

In Asia Orientale, Economia, Politica e Società by Stefano Lippiello

Un tassista di Tokyo a fine gennaio è stato uno dei primi infettati dal coronavirus in Giappone e sua suocera, ottantenne di Kanagawa, è stata la prima paziente deceduta a causa del virus, il 12 febbraio. Negli stessi giorni in cui ella si spegneva venivano portati in un centro attrezzato per malattie infettive altri due ottantenni provenienti dalla nave da crociera Diamond princess, morti il giovedì successivo. Testare tutti i passeggeri a bordo divenne allora un’ipotesi, ma il Ministero della salute tramite i suoi istituti aveva una capacità per soli 1500 test al giorno e i test presso strutture private sarebbero costati troppo, dichiarava alla stampa locale un funzionario ministeriale.

Questi sono i limiti fra i quali si muove il sistema sanitario giapponese: controllo stringente dei costi e garanzia dell’accesso. Il sistema è di ispirazione tedesca a base mutualistico. Prima della riforma del 2006 c’erano 3200 schemi assicurativi, ora ridotti a circa 1800. I premi e i co-pagamenti per le singole prestazioni sono diversi da schema a schema e l’erogazione avviene tramite fornitori sia pubblici che privati.

Le assicurazioni possono essere su base nazionale, locale, di impresa (o gruppi di imprese), o di categoria, esempi sono le mutue cooperative per dipendenti pubblici nazionali, locali, insegnanti e educatori, o ancora per architetti o medici, o a quella per i pensionati.

Gli schemi sono simili per servizi coperti, accesso alle cure e tariffe per i medici, ma differenti circa la ripartizione dei costi tra assicurazione e assicurato (si va da un co-pagamento del 10 fino al 30 per cento della prestazione). La “kenpo” – medicina tradizionale – è inclusa nel sistema. I servizi accessori vanno pagati dal paziente o con coperture private aggiuntive.

Dal 1961 tutti i cittadini devono essere iscritti nel sistema, ma dopo l’espansione della copertura degli anni ’60, il punto centrale della politica sanitaria è diventato il controllo dei costi, sui quali ha inciso il cambiamento demografico con l’allungarsi dell’aspettativa di vita. Il percorso di contenimento è culminato nelle riforme del goveno liberaldemocratico di Junichiro Koizumi nel 2003 che ha aumentato co-pagamenti e premi e introdotto una gestione separata per gli anziani.

Aya Abe, studiosa della povertà minorile a Tokyo, in uno studio sulla crescita del lavoro cosiddetto “non regolare” – tempi determinati, parziali e collaborazioni autonome – ha mostrato che il sistema di finanziamento della sicurezza sociale ha aumentato il tasso di povertà minorile. I pagamenti sono, infatti, in percentuale del redditto con un minimale e insieme con la parte di co-pagamento a carico del paziente implicano la regressività del sistema. Questo comporta, complice la stagnazione dei salari, che l’impatto della spesa sanitaria sia maggiore proprio per chi meno può permetterselo: i lavoratori poveri, come quelli di recente portati con successo internazionale sullo schermo da “Un affare di famiglia” di Hirokazu Kore’eda.

La maggior parte dei “non regolari” non è registrato nelle mutue dei datori di lavoro, ma in quelle pubbliche con premi più alti a loro carico (i premi variano dal 4,6 al 10,2 per cento). In modo particolare e disproporzionato sono colpite le donne e i giovani che sono più facilmente impiegati con contratti “non regolari”. Al contrario il sistema è redistributivo a favore dei più vecchi, che hanno premi e co-pagamenti via via più bassi con l’avanzare dell’età.

Nel 1868, anno della restaurazione Meiji e dell’apertura del paese, agli ospedali dei missionari cristiani si affiancarono tre ospedali militari a Kyoto, Osaka e Yokohama, seguirono vari prefetturali e soprattutto molti privati. Questo è ancora l’assetto esistente, con un’ampia offerta di cliniche private a fianco delle strutture pubbliche che ogni ente locale deve istituire. La scelta di avere tanti ospedali privati ha significato che la dimensione media resta piccola.

Il sistema non lascia grandi facoltà di scelta finanziaria né agli utenti, né agli erogatori. Gli strumenti di controllo dei costi usati dal governo consistono principalmente in un sistema di rimborsi fissi a medici e ospedali, al quale si uniscono uno stretto controllo dei costi da parte degli amministratori di ogni singolo piano e un sistema di sussidi che coprono circa un quarto del totale della spesa.

La sfida politica posta da un sistema sanitario con così tanti schemi a condizioni differenti sta nel bilanciamento tra qualità, costi e eguaglianza.

[Pubblicato su il manifesto]