Quando il regime fascista deportò i cinesi

In by Simone

Tra il 1941 e il 1942 gran parte dei cittadini cinesi presenti in Italia furono deportati dal regime fascista in speciali campi d’internamento in Abruzzo e in Calabria. Per il Duce i cinesi erano potenziali nemici: il loro paese d’origine era in guerra con il Giappone, alleato dell’Asse nazi-fascista. Un frammento perduto di storia del nostro paese ricostruito da Daniele Cologna, ricercatore di lingua cinese all’Università dell’Insubria, e pubblicato su Terre di mezzo Street Magazine #46.
Un signore distinto. Elegante. “Era molto educato. Qui se lo ricordano tutti”, mi racconta il padrone del ristorante Insula, incastonato nel centro di Isola del Gran Sasso. Mario Cheng Chi Chang, nato nella regione dello Zhejiang, in Cina, è stato qui dal 16 maggio 1942 fino alla liberazione, nel giugno 1944. E ci è tornato spesso da pensionato.

È uno dei 116 cinesi spostati dal campo d’internamento di Tossicia a quello di Isola del Gran Sasso. Un fatto che gli anziani del paese ricordano ancora. Il paese d’improvviso si popola di persone con dei lineamenti mai visti. Mario Cheng Chi Chang ha iniziato il suo peregrinare per le prigioni fasciste nel 1940, quando è stato arrestato a Torino.

Era lì per vendere le sue borse di tela, ma per il regime la sua provenienza significava un pericolo. Non è sopravvissuto nessun documento della sua famiglia d’origine. “A parte questa foto”, racconta Fausto Cheng Chi Chang, il figlio primogenito di Mario, nato a Isola del Gran Sasso. Ha tra le mani l’immagine incorniciata di una donna cinese, con il viso scavato dalle rughe e arso dal sole. È sua nonna: “Mio padre era sempre impegnato con il lavoro, non ci ha mai detto nulla di lei”, commenta.

Riserbo ed etica del lavoro erano serviti al padre per conquistarsi il favore dei suoi nuovi compaesani. Tra questi c’erano anche i suoceri, che avevano accettato il matrimonio, avvenuto nel 1945. Lo consideravano un buon partito: di bella presenza, era un gran lavoratore e i soldi non gli mancavano. Cosa potevano volere di più?

Daniele Cologna strabuzza gli occhi al sentire come in un paesino tanto nascosto dell’Appennino ci fosse già all’epoca una mentalità aperta. Per quanto i problemi ci fossero: in una nota il podestà si lamenta che gli ospiti “importunano le popolane, tentando di sedurle”.

Finita la guerra, Mario, insieme alla moglie Concetta Flacco e al figlio Fausto si è trasferito a Roma (dove nel 1949 è nato il secondogenito Elio) in cerca di fortuna. La famiglia apre un laboratorio di sartoria. Del resto Mario aveva da parte qualche risparmio: durante l’internamento si era mantenuto con una diaria di otto lire elargita dal regime. I

l laboratorio romano dava lavoro, oltre che a Mario e alla moglie, anche ad altre tre donne e ad un uomo italiano. Lo rileva poi Elio che lo trasforma in un’importante pelletteria romana: la Cheng bags. Fausto, invece, è tornato al paese d’origine. Lo sente sulle spalle il peso dell’ignoto che avvolge ancora la storia familiare. E l’ha tradotto in arte: scolpisce spesso volti appena abbozzati.

Mario si è spento il 12 gennaio 1989. Teramo e la sua provincia gli sono sempre rimaste nel cuore e spesso ci tornava per stare con il nipote, suo omonimo. Passavano insieme i pomeriggi a giocare a Mahjong, un gioco da tavolo di origine cinese. Cucinavano spaghetti di riso fatti in casa oppure riso con carne e bambù. Il nipote ha fatto tesoro di quell’insegnamento, tanto che ora delizia i suoi figli (la quarta generazione!) con i piatti imparati dal nonno.

[La foto di copertina è di Lorenzo Bagnoli]


*Lorenzo Bagnoli. Freelance con la passione per le inchieste. Scrive soprattutto di mafia, di immigrazione e di altre sciocchezze. Ha lavorato con E il mensile e Peacereporter, oggi collabora con Redattore sociale, Terre di mezzo, Linkiesta, Lettera43, il Fatto Quotidiano online e Q Code Mag. Ha trovato casa all’Irpi, il centro italiano per il giornalismo investigativo.