La Cina adora la Apple di Jobs. È un oggetto di un culto sincretico che sintetizza il desiderio di status symbol delle nuove generazioni con l’esigenza di praticità della mentalità contadina. Inoltre è una merce che incarna il successo. Proprio come il suo capitano d’industria, Steve Jobs. Lui riposi in pace, ma la Cina ha bisogno di tanti uomini come lui. Il diario da Pechino di Peace Reporter.
Cos’hanno in comune la Cina e Steve Jobs? Forse il gusto del paradosso che crea valore: la prima, nel giro di trent’anni, de-maoizza (e si arricchisce) nel segno di Mao; il secondo, più o meno nello stesso periodo, crea un impero non estraneo allo sfruttamento dei lavoratori e basato su un sistema hardware-software totalmente chiuso, però si vende come quello che think different, pensa differente. La Cina e Steve Jobs si piacciono.
Pechino, in una locanda dello Xinjiang, il proprietario è seduto al tavolo con due uiguri come lui. Dietro le sue spalle un vecchio televisore manda il notiziario di Cctv4. Fa da sottofondo, nessuno segue il dibattito in studio sulle tensioni tra Iran e Arabia Saudita, anche le previsioni del tempo passano in cavalleria. Quando comincia lo speciale sulla vita del defunto Jobs, il proprietario allunga il collo, sposta la sedia dall’altra parte del tavolo e guarda a bocca aperta.
"Ti piace Shǐdìfu Qiáobùsī?" – nome cinese del creatore di Apple – "Sì che mi piace quell’americano. È americano, vero?" Per lui che vende spiedini di montone e comanda due camerierine velate al semplice movimento degli occhi sotto i ciglioni neri, "quell’americano" è uno che sapeva come avere successo. Magari fossimo tutti così.
Li, un’amica cinese, mi dice: "Steve Jobs ha inventato delle cose che sono un mito. Quando è uscito l’iPhone 4, qui in Cina c’era gente che aveva già costruito l’iPhone 5 piratato. Dicevano: ‘Apple muoviti, dacci altra roba!’ È un peccato che sia morto così giovane. Un Jobs cinese? Difficile, noi per ora siamo molto bravi a imitare."
Jason, che vive qui da tanti anni e fa il designer, dice la sua: "Lui ha capito che la tecnologia va rivestita. Non ha inventato niente, dal punto di vista strettamente tecnologico è arrivato in ritardo su tutto, ma ha smussato gli angoli dei computer e li ha resi facilissimi da usare. Pensa all’iPhone, il primo telefonino senza libretto d’istruzioni. Quindi compiace un certo gusto della forma dei cinesi. Poi però, se i ‘guru’ del suo genere vengono in tour a dire cose che vanno al di là del prodotto, i cinesi non li stanno manco a sentire. A loro interessano l’iPod, l’iPhone e l’iPad."
"Piace perché ha successo", taglia corto Wang, mentre allo Stadio dei Lavoratori guardiamo il Guoan di Pechino vincere 4 a 1 contro il Yatai di Changchun. Intorno, i tifosi esplodono di continuo nel boato "shǎbī, shǎbī!" (termine che indica stupidità, ma molto più volgare) all’indirizzo dei giocatori avversari e anche dei propri quando sbagliano. Chi fallisce è colpevole. Tradisce le aspettative. Shǐdìfu Qiáobùsī, lui, non ha mai tradito.
Nella Cina dello sviluppo accelerato, è un eroe che tiene insieme i valori di diverse generazioni compresse in un trentennio: piace perché ha prodotto roba secondo il gusto pratico del vecchio animo contadino; piace perché è il capitano d’industria che indica la via maestra a una massa di piccoli imprenditori; piace perché la sua roba è bella, assecondando il desiderio di status symbol della nuova generazione; piace a tutti perché è di successo.
In questi giorni, si tiene la sesta sessione plenaria del XVII congresso del Pcc che, nel redistribuire le poltrone tra i futuri leader della Cina, stabilirà anche la linea politica del futuro. Da una parte il segretario del Partito di Chongqing, l"egualitarista" Bo Xilai; dall’altra il suo pari grado del Guangdong, il "liberista" Wang Yang: il primo vuole dividere la torta fra tutti mettendo un freno alla diseguaglianza crescente, il secondo desidera che la torta sia sempre più grossa, così magari più persone potranno averne una fetta in futuro. Chi adora Shǐdìfu Qiáobùsī sogna probabilmente una mela sempre più grande con un enorme morso impresso sopra: il proprio.
Nelle librerie, la biografia del coltivatore di mele è il bestseller del momento, è sistemata in vetrina più in vista di tutto il resto. C’è solo un piccolo particolare: il libro dovrebbe uscire il 24 ottobre, questa è una versione fake che va a ruba in tutta la Cina. Lo stesso Steve Jobs è diventato merce, come la roba che è stato così bravo a inventare.
Ma forse c’è di più. "Anche a me piace – dice Jin – perché è stato un uomo creativo, ha cambiato gli stili di vita. La Cina ha bisogno di eroi di questo tipo, gente che dedica il proprio talento alla costruzione di una vera e propria leggenda. Credo però che uno come lui possa esistere solo nel sistema sociale Usa, questa è la ragione per cui avere un uomo come lui in Cina resta ancora un sogno." Nel Paese che più investe in ricerca & sviluppo, si fa tuttora fatica a creare le condizioni perché il genio emerga.
"La parola chiave – continua Jin – è chéngfǔ (城府)". In Occidente la traduciamo con ‘perspicacia’, ma nei caratteri cinesi c’è di più: le mura di una città e una residenza ufficiale all’interno, oppure l’idea stessa di governo. "Un mondo nascosto ma pieno di stanze – spiega la donna – dove c’è autorevolezza". Chi ha chéngfǔ contiene questo mondo complesso: è sensibile, saggio, strategico. Se possiede ren (仁), cioè l’umanità in senso confuciano, utilizza questa dote in positivo e risolve situazioni difficili a beneficio di tutti; altrimenti, in senso negativo, la sfrutta per volgere gli eventi a proprio esclusivo vantaggio.
Shǐdìfu Qiáobùsī you chéngfǔ, Steve Jobs aveva chéngfǔ, senza dubbio. Positivo o negativo poco conta. La Cina, che più corre e più incontra problemi inediti, ha bisogno di tanti Jobs.
* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.