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Pillole di Cina – Ora, labora e fatti una birra!

In Cina, Cultura, Pillole di Cina by Isaia Iannaccone

Non uccidere, non rubare, non avere comportamenti sessuali scorretti, non praticare la menzogna, non bere alcool. Ecco le cinque interdizioni che la dottrina buddhista. Eppure nei monasteri di Dunhuang la birra si beveva eccome. Dall’ultima Pillola di Isaia Iannaccone

Non uccidere, non rubare, non avere comportamenti sessuali scorretti, non praticare la menzogna, non bere alcool. Ecco le cinque interdizioni che la dottrina buddhista impone ai credenti laici; per monache e monaci c’è soltanto una differenza: in campo sessuale l’astinenza deve essere completa.

Divieti di questo genere esistono in molte religioni; in quella cristiana, però, non si considera come peccato una bevutina; la cosa non stupisce se si pensa che nella messa è il vino che si trasforma nel sangue di Cristo, e che Noè, un protagonista della narrazione religiosa, era un vignaiolo ed è descritto anche come uno che si ubriaca (e non è l’unico a farlo, nella Bibbia).

C’è poi l’aspetto commerciale che unisce il cristianesimo alle bevande alcoliche, in particolare alla birra. In Belgio, secondo l’associazione di amatori di birra ZYTHOS, si contano circa 400 brasserie tra artigianali e industriali, dove si producono circa 2.000 tipi di birra che costituiscono un fatturato di 4 miliardi di euro all’anno (1% del PIL); le birre più blasonate e pregiate hanno le etichette di abbazie benedettine e di quelle trappiste (benedettine di clausura) che le fabbricano sin dai tempi della loro fondazione (la prima abbazia è del VI secolo). Erano dunque, i cristiani, più permissivi dei buddhisti per quanto riguarda le bevande alcoliche?

Ebbene, se andiamo a vedere bene, nonostante il divieto canonico, anche nelle abbazie buddhiste, si produceva e si consumava la birra. Ce lo dice con molti dettagli soprattutto il documento classificato come P2763 scoperto nella grotta n. 17 a Dunhuang. Ora vi racconto.

Nella provincia del Gansu,  al margine orientale del deserto del Taklamakan, si trova Dunhuang 敦煌,oggi città ma una volta oasi nella quale convergevano due piste carovaniere provenienti dall’Asia Centrale e che facevano parte dell’intricata rete di comunicazione chiamata Vie della Seta. Qui sorgono le grotte Mogao 莫高 (ossia “di altezza ineguagliabile”); sono 735 di cui 492, vere e proprie cappelle per il culto, sono decorate con importanti pitture e sculture buddhiste. Le prime di queste grotte risalgono al IV secolo, e per un millennio furono scavate, adornate e attrezzate sia da comunità monastiche che da pellegrini; in epoca Tang, a occupare le grotte furono soprattutto i fuggiaschi delle persecuzioni religiose antibuddhiste che culminarono nell’anno 845. Ricordiamo che le persecuzioni, scatenate dal potere imperiale,  erano rivolte contro la potenza economica che il clero buddhista e i suoi monasteri rappresentavano: i buddhisti erano proprietari di fastosi templi e grandi edifici nelle città, erano esentati dalle tasse e, fuori da ogni controllo dello Stato, i ricchi monasteri esercitavano prestiti, fungevano da banche, da centri di formazione per i giovani, inoltre possedevano intere regioni agricole che sfruttavano vantaggiosamente utilizzando mano d’opera a bassissimo costo, e i monaci non avendo figli non praticavano il culto degli antenati neanche di quelli imperiali.

Ebbene, il 22 giugno del 1900, Wang Yuanlu 王圓籙 (semplificato 王圆箓), monaco taoista che voleva salvaguardare il patrimonio artistico e religioso del sito di Dunhuang quasi in rovina e diventato rifugio per ogni genere di reietti dalla società, scoprì, murato dietro la parete di una grotta (la grotta n. 17), un tesoro: circa 50.000 manoscritti, pitture e ricami su seta, statuette e oggetti cultuali buddhisti. Nel 1907 grande parte di questi reperti vecchi di almeno un millennio (7.000 manoscritti completi, 6.000 frammenti, e pitture), fu venduto per 130 sterline all’archeologo ed esploratore Aurel Stein; successivamente, tra il 1913 e 1915, egli fece incetta di altri 570 manoscritti; il tutto è ora disperso tra il British Museum e la British Library in Londra, la Library of Indian Affairs e il National Museum di New Delhi. Nel 1908 fu la volta dell’orientalista e archeologo Paul Pelliot che per 90 sterline si accaparrò circa 10.000 documenti fra cui una versione nestoriana del Vangelo secondo San Giovanni, statue e altri oggetti d’arte; il tutto è ora in Parigi al Musée Guimet e alla Bibliothèque Nationale de France. Manoscritti di Dunhuang sono anche a Pechino, a St. Pietroburgo e in alcune biblioteche tibetane.

Tra i manoscritti – in cinese, tibetano, sanscrito, uighur, antico turco, thangut, kotanese, kucheano e sogdiano – arrivati in Europa (ora digitalizzati e consultabili on-line), preziosi documenti di astronomia, medicina, teologia, filosofia, Storia, letteratura, geografia, matematica, divinazione, giochi ricreativi, e la versione stampata nell’868 del Sutra del Diamante che dimostra inequivocabilmente che la stampa a caratteri mobili fu inventata in Cina con circa mezzo secolo di anticipo sull’Occidente. Tra questi scritti si trova un documento (il P2763) che prova come le monache e i monaci della ventina dei monasteri che attorniavano Dunhuang contravvenivano ampiamente alla regola che vietava l’uso di bevande con alcool perché producevano e consumavano abbondantemente un liquido denominato jiu 酒.

Il carattere Jiu 酒 è formato da due parti: shui 水 (che nei caratteri composti viene scritto氵) che significa “acqua”, e you 酉 che rappresenta una giara chiusa ermeticamente, nella quale c’è qualcosa dentro che fermenta; l’insieme jiu 酒 è usato in lingua cinese per indicare le bevande alcoliche. Nel caso del liquido molto citato dal documento P2763, si tratta di birra perché viene prodotto dalla fermentazione di cereali.

Questo documento è un elenco contabile del monastero Jingtu 淨土, e riporta le spese in diversi anni; le cifre giunte sino a noi sono complete per gli anni 924 e 930: tra esse, la birra, costituisce il 22% dei prodotti alimentari nel primo anno considerato, e il 10% nel secondo. Per altri anni, anche se i dati sono incompleti, sono state ricostruite cifre analoghe per l’acquisto di birra.  Il documento indica come gu jiu 沽酒 la birra acquistata, e come wo jiu 臥酒 la birra prodotta con il miglio comprato e poi  messo a fermentare (il termine wo 臥 è usato nei testi di agricoltura dal secolo VI per indicare i grani di miglio messi a riposare e fermentare, oppure la crusca).

Nei conti del monastero, e in altri documenti che lo riguardano, si parla di locali dove veniva prodotta la birra, e di feste religiose e no nelle quali essa veniva  consumata. Stranamente, tutti gli acquisti e le paghe per i lavori necessari al monastero sono dettagliati nei documenti contabili di Dunhuang, ma non si trovano annotate le spese per remunerare coloro che fabbricavano la birra. Sappiamo che i monaci non ricevevano denaro per i lavori che svolgevano (costruire e riparare i padiglioni, tosare le pecore, marchiare gli animali, coltivare gli orti, tagliare la legna, etc.), mentre i loro aiutanti, le donne di cucina e i domestici erano salariati; si suppone, dunque, che fossero proprio i monaci a preparare la bevanda alcolica, e a questo proposito incontriamo  frasi contabili che suffragano l’ipotesi, come: «…4,5 cucchiai di misura di grano o orzo per fabbricare la birra affinché i monaci preparino il banchetto per i dignitari»; oppure: «… sono stati forniti 3,8 picul di grano o orzo per la birra affinché i monaci preparino il banchetto per il solstizio d’inverno…» (dove “cucchiaio di misura” era l’unità di misura per i grani, e “picul” per una qualunque massa, e significava letteralmente “quanto un uomo può portare su un giogo da spalla”).

Se si esaminano i tipi di birra prodotti a Dunhuang, dal documento emerge soprattutto quella ottenuta per fermentazione del miglio, ma c’è anche la birra fabbricata con un miscuglio di grani decorticati di miglio, grano, orzo, oppure di grano e orzo senza il miglio. A volte, però, viene menzionata la farina di questi cereali, si pensa che in quest’ultimo caso la birra ottenuta fosse appannaggio dei religiosi più importanti o degli ospiti eminenti che visitavano il monastero.

Stando sempre al documento emerso dalla grotta n. 17, si nota che nessuna spesa è menzionata per il lievito, e ciò è strano perché senza lievito non si ha fermentazione. Allargando la ricerca, è stato constatato che anche nei libri contabili dei granai di Stato e di altri produttori di birra, il lievito non è menzionato. Forse non era soggetto alle tasse imperiali, e dunque non bisognava conteggiarlo? Non è stato fino a ora possibile trovare una risposta valida a questo quesito; l’unica ipotesi che è stata fatta basandosi sui testi alchemici dell’epoca, nei quali le bevande fermentate erano considerate un dono fatto dalle divinità, è che il lievito era reputato come l’essenza della divinità stessa che produceva la fermentazione, e dunque avendo un carattere sacro non era oggetto di transazione economica. La pista è debole, e non so aggiungere altro in merito.

Stando al manoscritto, nel monastero Jintu due volte fu utilizzata «la birra per i riti» durante feste religiose di antica derivazione “pagana”: il nuovo anno e il Mangiare Freddo (il terzo giorno del terzo mese lunare, festeggiato anche nella penisola indocinese); e birra fu comprata da un mercante di nome Hanku per accompagnare alcune pratiche liturgiche come la colletta di fondi per acquistare un abito di monaco a un maestro, e per la predica serale della festa detta Avalambana (il quindicesimo giorno del settimo mese lunare). Le spese per la birra sono annotate anche in occasione della fine di certi lavori (la costruzione o la riparazione di un edificio, attività agricole e pastorali), per accogliere il governatore in visita, per guarnire le offerte alle divinità buddhiste, nelle cerimonie funerarie.

Visto che nel secolo X la consumazione di bevande alcoliche non poneva alcun problema ai monaci buddhisti di Jingtu e, si presuppone, a nessuno dei monasteri di Dunhuang, ci si chiede quando la regola del divieto di berle fu ammorbidita. Probabilmente essa non fu mai messa veramente da parte nella maggioranza delle comunità monastiche cinesi, ma Dunhuang che era all’incrocio di aree geografiche e culture che non rappresentavano tutte significativamente la Cina, era un’eccezione e viveva con abitudini alimentari diverse. Va anche detto anche che, comunque, riti religiosi e alcool appartengono fin dall’antichità alla tradizione culturale cinese come si legge nello Shijing 詩經 (semplificato诗经), il Libro della Poesia (305 poemi composti tra i secoli XI e V a. C.): «Quando i nostri granai sono pieni/E i nostri mulini si contano a miriadi/È il tempo di preparare la birra e il cibo/Per le offerte e i sacrifici».

Insomma, i religiosi buddhisti non pubblicizzavano ai quattro venti «Chi beve birra campa cent’anni!», ma tra un’ora et labora e l’altro, per quanto riguarda la birra non erano poi così tanto differenti dai nostri monaci benedettini, trappisti o no.

Di Isaia Iannaccone*

**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)