Pillole di Cina – Hanno dato fuoco a un uomo

In Cina, Economia, Politica e Società, Pillole di Cina by Isaia Iannaccone

Ecco! L’orrore. Ci sono morti. Hanno dato fuoco a un uomo. Ma chi è stato? E chi era l’uomo tra le fiamme? Un altro è stato buttato giù dal tetto di un edificio. A un altro ancora, un poliziotto ha sparato un colpo di rivoltella a distanza ravvicinata. Video docet, l’abbiamo visto tutti. E negozi saccheggiati. Ed esplosioni di violenze fra esseri umani. Forse anche la Triade ha messo il suo zampino. E feriti tra i dimostranti e le forze dell’ordine. Tanti arresti. Paura. Una città preda di violenze. E di repressione violenta. La protesta sta diventando rivoluzione? Noi, gli esterni, gli estranei, gli stranieri, i sinologi compiacenti e compiaciuti di essere sinologi, non ci capiamo più niente. L’unica analisi che sappiamo utilizzare è vecchia di un secolo e mezzo: lotta fra oppressori e oppressi. Non so se è proprio così. O forse è proprio così.

Hong Kong, certo, parlo di Hong Kong. E della sua sofferenza.

La storia della Cina, sin dalla sua prima unificazione (221 a.C.), è costellata di ribellioni, rivolte, rivoluzioni di cui l’ultima, la Rivoluzione Cinese per antonomasia, ha dato vita al gigante asiatico di oggi, lo stesso gigante nel quale, a Hong Kong, un ricorso storico incombe minaccioso, senza che nessuno sappia prevederne lo sviluppo. O temendone lo sviluppo.

Turbanti Gialli, Sopracciglia Rosse, Cavalli di Bronzo, i nomi di alcune delle associazioni di rivoltosi dell’antichità. A differenza di quella urbana di Hong Kong, quelle che scossero la Cina furono rivolte contadine, ed ebbero il picco massimo nella metà del XIX secolo. Siccome la storia del Celeste Impero era – per dirla con Balazs – scritto da mandarini e destinata ai mandarini, il racconto dei moti nella storiografia cinese utilizza termini che ci fanno capire quanto l’analisi delle rivolte fosse viziata. I contadini ribelli erano dei “fei” 匪 termine che significa “bandito” ma è anche usato come particella di negazione, dunque più che un uomo che esiste ed è messo al bando, soprattutto uno che non esiste, che non ha diritto di esistere, da cancellare come categoria. Le uniche rivolte prese in considerazione dagli storici cinesi furono quelle che riuscirono a rovesciare le dinastie e a crearne di nuove.

Così, queste ribellioni che ebbero successo, che ruppero il “Tianming” 天命, ossia il “Mandato Celeste” che dava diritto a un imperatore di regnare, rientravano nella morale confuciana secondo la quale l’ordine costituito poteva essere ribaltato quando l’imperatore non garantiva più l’armonia tra l’ordine sociale e l’ordine cosmico. In lingua cinese, rompere il Mandato Celeste si diceva “geming” 革命; non è un caso che  lo stesso termine sia usato dagli storici cinesi moderni per dire “rivoluzione”.

Le dinastie falciate dalla collera contadina furono molte e molto importanti: i Qin (221-206 a.C.), gli Han (206 a.C.- 220), i Tang (618-907), i Song (960-1279), e anche i Ming (1368-1644) che, giunti al potere per le sollevazioni popolari contro la dinastia mongola degli Yuan (1279-1368), furono a loro volta rovesciati da una rivolta contadina poi eliminata dai Manciù che diedero vita all’ultima dinastia dei Qing (1644-1911).

Se andiamo a esaminare le ribellioni che portarono alla caduta di una dinastia regnante e alla fondazione di una nuova dinastia, vediamo che esse si verificarono sempre nei periodi di siccità o esondazioni dei fiumi con conseguenti morti, distruzioni e carestie che duravano anni e coinvolgevano milioni di contadini. Anche quando le casse dello Stato si svuotavano per eccessive spese belliche o per sprechi della classe dirigente, e le tasse e il prezzo delle monete d’argento (tael) montavano a dismisura, ecco che i contadini e gli strati più miseri – ossia il 95% della popolazione – che pagavano tasse, affitti di campi, di case e di negozi con i tael acquistati con le monete di rame (sapechi) guadagnati duramente, davano vita a rivolte sanguinose.

Una di queste tante sollevazioni popolari merita un piccolo approfondimento perché nacque in un contesto particolare ed ebbe per capo non un contadino ma un frustrato aspirante letterato bocciato per quattro volte di fila agli esami imperiali. Fu il più grande movimento popolare mondiale del XIX secolo: la rivolta dei Taiping太平 (Grande Pace).

Il contesto è presto detto: la Cina impoverita e umiliata dalla sconfitta e dal trattato ineguale della prima Guerra dell’Oppio (1842), l’apertura forzata dell’impero agli occidentali e ai loro prodotti, oppio in primis che drena l’argento fuori del Paese, il discredito della dinastia Manciù per la facilità con cui aveva ceduto agli invasori stranieri, l’apertura del porto di Shanghai e degli altri porti dell’est che si sostituiscono ai porti meridionali lasciando al sud senza lavoro centinaia di migliaia di coolies (lavoratori agricoli e operai sfruttati nei lavori più umili) e di barcaioli. Il fomentatore della rivolta è Hong Xiuquan 洪秀全 (1813-1864); nato in una famiglia di contadini poveri del Guangxi 广西, provincia dell’entroterra di Canton, non avendo superato gli esami, e dunque inacidito per non essere riuscito a diventare funzionario, viene accolto come catecumeno dai missionari protestanti di Canton e si fa battezzare.

Nel 1850, dopo avere dichiarato di avere avuto delle visioni che gli avevano rivelato che lui era il fratello di Gesù Cristo, comincia a predicare ai contadini promettendo il riscatto dalla servitù e il possesso della terra, e impone il battesimo ai suoi seguaci; accolto favorevolmente dalle masse di disoccupati e di persone ridotte in miseria, comincia a marciare bellicosamente verso il nord del Paese seminando la morte tra i proprietari terrieri e i funzionari, saccheggiando e distribuendo alle sue truppe i beni requisiti.

L’atto rivoluzionario per eccellenza dei rivoltosi è quello di tagliarsi il codino, la treccia che la dinastia Qing imponeva ai cinesi per distinguerli dall’etnia dominante dei Manciù. Nel 1851 Hong  si proclama imperatore del Regno Celeste della Grande Pace (太平天国, Taiping Tianguo); nel 1853, dopo una marcia che vede le sue truppe vittoriose su quelle imperiali, occupa Nanchino che diviene capitale del suo regno. Le riforme promulgate vanno dalla proibizione dell’oppio, del tabacco, della poligamia e dell’omosessualità, a quelle agrarie (terra ai contadini, collettivismo dei beni prodotti divisi tra tutti) che, per la loro carica di giustizia sociale, saranno poi ammirate dai teorici del comunismo cinese.

Peccato che lo stesso Hong e i suoi più stretti collaboratori (che si facevano chiamare wang 王 , ossia “re”), si diedero subito alle pratiche più aberranti dei governi imperiali cinesi: suddivisioni in cricche, lotte intestine per il potere, distribuzione di cariche nobiliari, burocrazia soffocante per accedere alla quale si dovevano fare esami (sulla Bibbia), dirigenti con numero impressionante di concubine con relativo seguito da mantenere, favoritismi, allentamento della disciplina militare, soprusi che alienarono dal progetto rivoluzionario molti seguaci. In breve, nonostante i Taiping avessero un formidabile esercito, il tentativo di conquistare Pechino fallì, e lo stesso movimento subì numerose sconfitte dalle truppe imperiali e dalle milizie regionali dei proprietari terrieri, che furono aiutati dagli Occidentali per trasportare soldati con le navi lungo il fiume Yangzi. Nel 1864 Nanchino fu riconquistata dai Qing, e i Taiping trucidati; secondo la tradizione, Hong non morì in battaglia ma a seguito di un’intossicazione alimentare.

La rivolta dei Taiping e la conseguente repressione costarono la vita a un numero impressionante di persone, dai venti ai trenta milioni; lo spopolamento delle campagne dovuto a questo tragico crollo demografico portò per oltre mezzo secolo a una drastica riduzione dei prodotti alimentari, il che concorse, assieme ad altre cause, alla fine della dinastia Qing falciata dall’emergere dei movimenti di rivoluzione intrisi dalle idee socialiste, che si batterono per l’istituzione della Repubblica.

Se a Hong Kong esistono una Taiping Shan (montagna Taiping), un ristorante Taiping e una compagnia di assicurazioni Taiping, tratteggiare parallelismi o divergenze tra il movimento dei Taiping e i rivoltosi odierni dell’ex colonia britannica, è azzardato; il Global Times, quotidiano cinese in lingua inglese, ha abbozzato un’analisi che rimane incompleta e riduttiva ma potrebbe essere un punto di partenza per ragionarci su.

Nel 1983, Hugo Claus (1929-2008), un talentuoso scrittore belga che fu compagno di Sylvia Kristel, l’attrice che interpretò il personaggio di Emmanuelle nei film omonimi, diede alle stampe “Het verdriet van België” (La sofferenza del Belgio), un romanzo autobiografico commovente ed epico, che ha al centro il coming of age di un ragazzo vissuto nelle Fiandre durante la Seconda Guerra Mondiale. Ebbene, penso sia arrivato il momento di scrivere “La sofferenza di Hong Kong”, dedicato al coming of age dell’ex colonia britannica che vuole crescere ed evolversi ma è stretta tra il dirigismo del gigante asiatico e il suo essere una delle zone economiche chiave in cerca di libertà e sperimentazione. Spero che la penna non tremi quando dovrà affrontare gli eventi drammatici cui stiamo assistendo.

Di Isaia Iannaccone*

**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)