Natale a Yiwu

In by Gabriele Battaglia

Yiwu, il luogo noto sui media cinesi come «il villaggio del Natale», è in realtà una città di 1,2 milioni di abitanti, resa famosa da quello che l’Onu e la Banca mondiale hanno certificato essere «il più grande mercato all’ingrosso di beni di piccole dimensioni del mondo». Ma dopo dieci anni di crescita e di investimenti da ogni parte del globo, le sue fabbriche non riescono più a vendere tutto quello che producono. L’odore insalubre della plastica di bassa qualità ci riempie le narici. Il reportage.
Xiao Wei è un operaio di 19 anni. Il suo lavoro è quello di dipingere di rosso i fiocchi di neve destinati ad addobbare i nostri alberi di natale. Lo fa per 12 ore al giorno, e viene pagato a cottimo. Circa 400 euro al mese. Il suo ritratto ha vinto il secondo premio del Word Press Photo 2015. Nella foto che lo ha portato sui giornali di mezzo mondo indossa una tuta blu, un cappello da Babbo Natale e una mascherina che cambia almeno sei volte al giorno. Deve proteggersi dalle polveri sottili e dalle esalazioni dei coloranti che usa e che rendono l’aria della stanza in cui lavora densa e irrespirabile.

Siamo nella periferia di Yiwu, nella regione sudorientale dello Zhejiang. Da qui proviene la gran parte dei cinesi che vivono e lavorano in Italia e, soprattutto, la maggior parte delle merci a buon mercato che hanno invaso i negozi e le case di tutto il mondo. In particolare a Natale. Qui si produce il 60% degli addobbi natalizi destinati al mercato globale, e il 90% di quelli destinati al mercato interno. Secondo l’agenzia di stampa governativa Xinhua, nell’area di questa città si concentrano almeno 600 fabbriche specializzate in addobbi natalizi.

«Sono arrivato in quell’azienda fingendomi un compratore all’ingrosso», ci racconta il giovane fotografo Chen Ronghui. «Era luglio, nessuno pensava al Natale. Non c’erano controlli e una volta entrato nei luoghi di produzione ho conosciuto Xiao Wei, un migrante che lavorava in quella fabbrica con tutta la sua famiglia: padre, madre e fratello maggiore. Ognuno di loro era incaricato di un colore diverso e durante le lunghe ore di lavoro non si parlavano. Ma il solo fatto di lavorare assieme li faceva sentire meno distanti da casa, a 1.500 chilometri da lì».

È sulla traccia di questa foto e della produzione degli addobbi natalizi che anche noi arriviamo a Yiwu. A poco meno di 300 chilometri da Shanghai, un’ora e mezzo di treno veloce, il luogo noto sui media cinesi come «il villaggio del Natale» è in realtà una città di 1,2 milioni di abitanti, resa famosa da quello che l’Onu e la Banca mondiale hanno certificato essere «il più grande mercato all’ingrosso di beni di piccole dimensioni del mondo». Attorno a questa sua caratteristica vive stabilmente una comunità di stranieri di 15 mila persone che ha trasformato la città. Ci sono ristoranti etnici, moschee, chiese e perfino un tempio sikh. Ma tutto ruota intorno al gigantesco complesso in cui si trova quella che di fatto è una fiera campionaria permanente: quattro milioni di metri quadrati distribuiti su cinque palazzi da quattro piani.

All’interno si trovano 62 mila piccoli spazi espositivi divisi per categorie: vestiti, cosmetici, accessori per la casa, fiori finti, gioielli, giocattoli, prodotti di elettronica, forniture per gli uffici e molto altro. Ogni spazio mette in mostra il campionario dei prodotti di una o più fabbriche a cui fa riferimento. Armati di una mappa del luogo, ci dirigiamo verso il settore che ospita gli articoli in vendita per le festività: palazzo numero 1, terzo piano. L’odore insalubre della plastica di bassa qualità ci riempie le narici. Ci sono luci di Natale di varie fogge e dimensioni, abeti finti, renne e babbi natali illuminati, festoni, palline per gli alberi e qualsiasi decorazione natalizia possa venire in mente.

«Dovevate venire ad agosto», ci redarguisce un venditore sulla quarantina. Il suo spazio è interamente occupato da cappelli di feltro rosso e barbe sintetiche bianche. «Avreste avuto più scelta». Ci siamo messi sulle tracce del Natale consumistico, ma abbiamo calcolato male i tempi. A inizio dicembre lo spazio dedicato al Natale è già ridotto al minimo. Gran parte del piano è occupato dalle decorazioni per il chunjie, il capodanno cinese che quest’anno cade a inizio febbraio. In ogni caso, contiamo almeno una cinquantina di stand esclusivamente dedicati ai prodotti natalizi. Le luci vanno per la maggiore, i prezzi sono irrisori.

Senza perder tempo in estenuanti contrattazioni, scopriamo che i fili da due metri delle luci natalizie che decorano i nostri alberi di natale sono venduti (primo prezzo) a 70 centesimi l’uno. «L’anno scorso costavano il doppio. Per voi è il momento degli affari, io ancora ci guadagno ma non so se l’anno prossimo mi troverai qui». You Xiaohui ha superato i sessant’anni ed è, tra i tanti venditori che incontriamo, quella che parla di più. E si lamenta: «Nessuno ha il coraggio di dirlo, ma siamo in crisi. Quest’estate le esportazioni sono precipitate, e anche il mercato interno assorbe meno prodotti dell’anno scorso. Chi compra vuole pagare sempre meno. Fortuna che la nostra fabbrica è piccola e produciamo su commissione. Quest’anno abbiamo semplicemente assunto meno operai».

Anche i prezzi degli onnipresenti alberi di Natale sono calati. Dodici mesi fa costavano 2,55 euro, oggi 2,10. Se a prima vista può sembrare una buona notizia per noi consumatori, in realtà Yiwu è lo specchio di una potenziale crisi che minaccia l’economia mondiale. Dopo dieci anni di crescita e di investimenti da ogni parte del globo, le sue fabbriche non riescono più a vendere tutto quello che producono. Sono costrette ad abbassare i prezzi, ma nonostante ciò non risalgono la china. I dati ufficiali di novembre confermano questa tendenza su tutta la Cina: le esportazioni sono in calo per il quinto mese di fila.

Ne parliamo con Wang Youjun, rappresentante della Kingston, una delle più grosse aziende che organizzano i container diretti dal grande mercato di Yiwu alla volta dei Paesi arabi, dell’Europa e delle Americhe. Lui, che si occupa nello specifico del mondo arabo e si fa chiamare Jumah, ci spiega che il crollo negli affari è stato incredibile. Ci fa un esempio: «Nemmeno sei mesi fa una spedizione per l’Egitto costava duemila dollari, ora appena cinquecento». E aggiunge: «Non credo che i prezzi risaliranno nel futuro più immediato. Se prima con le merci di Yiwu facevamo salpare cinque navi al mese, adesso ne riempiamo appena due».

Richiamiamo Chen Ronghui, l’autore della foto che ci ha portato fino a qui. Vogliamo chiedergli se anche lui ha avuto l’impressione di fotografare un mondo in via d’estinzione. «Era esattamente questo il punto del mio lavoro», ci risponde con entusiasmo. «Quando gli occidentali guardano quella mia fotografia ci vedono l’alienazione, lo sfruttamento dei lavoratori e le storture del sistema capitalistico. Tutto vero, ma la Cina è un ecosistema complesso. Il ragazzo che ho fotografato sogna una vita migliore. Quella foto è parte di una serie che documenta la fase di profondo cambiamento in cui si dibatte il mio Paese: la fine del made in China. Tra cinque o sei anni quella famiglia non troverà più lavoro in fabbrica. Vivrà meglio? È ancora presto per dirlo».

[Scritto per Pagina99; foto credits: worldpressphoto.org]