Myanmar – La diga cinese non si farà

In by Simone

La giunta militare birmana ha deciso di sospendere la costruzione della diga di Mytsone, un progetto che vedeva il coinvolgimento della Cina. E’ una vittoria dei movimenti ambientalisti che si opponevano al progetto ma al tempo stesso si tratta di una manovra con cui il presidente Thein Sein cerca di riguadagnare consenso tra la popolazione.
Il progetto della diga di Myitsone, vicino alla foce del fiume Irrawaddy, è contrario alla volontà del popolo birmano e dunque deve essere bloccato. Con uno stop netto e totalmente inaspettato non solo per le tempistiche ma anche per le motivazioni, il presidente del Myanmar, Thein Sein, ha ordinato l’immediata sospensione dei lavori di realizzazione dell’impianto idroelettrico che la società cinese China Power Investment sta realizzando nel nord del Paese. Un’opera colossale, che avrebbe dovuto rinsaldare i legami tra il governo “quasi civile” di Naipyidaw e quello di Pechino, ma che ha anche finito per catalizzare tutte le principali forze di opposizione al regime, scese in piazza nel quarto anniversario della Rivoluzione zafferano per urlare il proprio no all’ennesima imposizione della giunta militare.

Come sottolineato in una lettera in dieci punti che lo stesso Thei Sein ha inviato al parlamento per giustificare la sua decisione, la scelta di interrompere i lavori di costruzione della diga è stata presa proprio a fronte della caparbia contrarietà manifestata da ambientalisti, contadini, pescatori, intellettuali, monaci buddisti e membri delle comunità locali al progetto di diga elaborato nel 2005 dall’allora capo di Stato, il generale Than Shwe, d’intesa con il presidente cinese Hu Jintao. Cortei e manifestazioni hanno sfidato l’autorità dei militari birmani, portando in strada migliaia di persone in un Paese in cui violare un qualsiasi ordine dell’esercito può costare la vita. Nei giorni scorsi alcune marce di protesta sono arrivate addirittura a lambire l’ambasciata cinese a Rangoon, la blindatissima ex capitale birmana. Anche la storica leader della Lega nazionale per la democrazia, l’attivista e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha preso parte alla campagna contro la chiusa di Myitsone, rompendo gli indugi alle pubbliche prese di posizione dimostrati dopo la sua scarcerazione nel novembre scorso, per rivolgere un appello al suo governo e a quello cinese per bloccare il progetto.

Alta oltre 150 metri e collocata nel punto di congiunzione tra i fiumi Mali e N’Mai che, nel nord del Myanmar, si uniscono per formare l’Irrawaddy, la diga di Myitsone è solo una delle sette che la China Power Investment dovrebbe costruire sul grande corso d’acqua che taglia in due il Paese. I 6mila megawatt di potenza annualmente prodotti dalla centrale a turbine che dovrebbe sorgere nei pressi della chiusa lo renderebbe uno dei progetti idroelettrici più grandi del mondo, in grado di fornire da subito una considerevole quantità di energia che andrebbe ad alimentare la vicina provincia cinese dello Yunnan in cambio dei soldi di Pechino, da sempre alleata della giunta militare birmana. Sin dai primi studi di fattibilità, però, l’impianto è stato fortemente criticato per il notevole impatto ambientale associato alla sua realizzazione, che prevede di allagare 760 chilometri quadrati di terre fertili e di spostare oltre 60 villaggi presenti nell’area, per un totale di 15mila persone. Analisi realizzate da esperti indipendenti hanno inoltre dimostrato che la struttura sorgerebbe a meno di 100 chilometri da una faglia tettonica e sarebbe dunque esposta a rischi sismici non indifferenti. Non bisogna dimenticare infine che la zona alla foce dell’Irrawaddy è la terra nativa dell’etnia kachin (o jingpo), di religione cristiana, che da decenni lotta fieramente contro i tentativi di assimilazione portati avanti dalla giunta militare e che avversa apertamente il progetto, tanto da aver tentato più volte di sabotarlo con attentati e azioni di forza che hanno creato non pochi problemi ai lavoratori cinesi impegnati nei lavori.

A fronte di questa situazione la decisione di Thien Sein, che dal marzo scorso è alla guida di quello che i vertici del Tatmadaw (nome ufficiale dell’esercito birmano) si sforzano di presentare agli occhi del mondo come un governo composto da esponenti della società civile, sembra evidentemente ispirata dalla volontà di mantenere aperti quegli spiragli di dialogo con la popolazione che si sono aperti dopo le ultime “elezioni”, nell’ottica di quella transizione verso una società democratica che la giunta militare non ha mai smesso di promettere. Tuttavia è ancora presto per dire se effettivamente il progetto di Myitsone sarà completamente cancellato. I generali del Myanmar, infatti, non sono affatto immuni da repentini ripensamenti, e anche se per il Dragone cinese quello birmano è un alleato strategico fondamentale (sul cui territorio Pechino progetta di far passare i rifornimenti petroliferi che attualmente transitano per lo Stretto di Malacca), il Paese della Grande Muraglia potrebbe non apprezzare affatto una decisione unilaterale (ammesso che di questo si tratti) che compromette i suoi interessi nella regione, operando pressioni dirette su un governo colpito da pesanti sanzioni internazionali e che senza il suo foraggiamento si troverebbe in enorme difficoltà.


* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra e per il settimanale Left-Avvenimenti.


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