Myanmar – Il popolo più perseguitato

In by Simone

Il governo birmano sembra immobile davanti alla vicenda dei rohingya. Nel 2014 il Paese terrà il primo censimento in 30 anni e la questione della cittadinanza alla minoranza perseguitata e non riconosciuta si ripresenterà. Mentre nonostante le violenze, la comunità internazionale vede progressi.Lo stesso giorno in cui Human Rights Watch pubblica un (annunciato) report di 164 pagine, in cui accusa il governo del Myanmar di essere complice delle atroci violenze subite dalla minoranza musulmana, l’Unione Europea abolisce le sanzioni contro l’ex dittatura asiatica.

Rimane oggi valido soltanto l’embargo sulla vendita di armi. Per molti aspetti, le sanzioni europee hanno contribuito a mantenere il popolo del Myanmar isolato dal resto del mondo, proprio come voleva la giunta militare al potere. L’aspetto critico della scelta dell’UE risiede nella dichiarazione in cui riconosce "il notevole processo di riforme" attuato dal governo, comprendendo le azioni intraprese "a protezione di tutte le minoranze etniche".

HRW ritiene legittimo parlare, in base alle sue indagini, di pulizia etnica, in corso di svolgimento nei confronti del popolo Rohingya. Sebbene il governo del Myanmar sostenga che i rohingya siano un popolo originario del Bangladesh, stabilitosi nel Rakhine State -regione occidentale del Myanmar- in epoca coloniale, alcuni storici rintracciano la loro presenza in quest’area già nell’VIII secolo. La storia più recente di questo territorio conferma la convivenza tra rakhine e rohingya in un regno indipendente, prima che i birmani lo invadessero nel 1784.

I rohingya sono una minoranza musulmana non riconosciuta dal governo del Myanmar, non hanno cittadinanza, sono apolidi (stateless) e sono stati più volte l’obiettivo di feroci campagne d’odio e distruzione attuate dalla dittatura birmana.
Dalla dissoluzione della giunta all’istituzione di un governo semi-civile (i militari continuano a occupare -secondo la Costituzione- il 25 per cento dei seggi parlamentari) la situazione dei rohingya non è migliorata, ma al contrario è andata peggiorando.

Numerosi sono gli episodi di violenza registrati negli ultimi anni, culminati in due picchi a giugno e ottobre 2012. Centinaia di persone hanno perso la vita e centinaia di migliaia hanno perso la casa, il lavoro e sono stati trasferiti forzatamente in campi profughi. Le violenze sono sorte in seguito all’uccisione di una donna Rakhine di 28 anni da parte di tre musulmani, avvenuto il 28 maggio 2012.

Secondo le testimonianze raccolte da Maung Zarni, analista birmano in esilio e attualmente docente alla London School of Economics, il governo ha corrotto il medico legale che si è occupato dell’autopsia della donna, costringendolo a constatarne anche lo stupro. Il 3 giugno, nello stesso distretto dove è avvenuta l’accusa di stupro e omicidio, un folto gruppo di Rakhine ha assalito un autobus, uccidendo dieci musulmani che erano a bordo.

I rakhine sono essi stessi una minoranza nel panorama multi-etnico del Myanmar, ma sono buddhisti e nel Rakhine State costituiscono la maggioranza. In seguito a questi due eventi, le violenze tra rakhine e rohingya sono aumentate, con mobilitazioni da entrambe le parti volte a uccidere e appiccare incendi a case e negozi. Inizialmente le forze dell’ordine non sono intervenute, ma, quando l’ordine è arrivato, hanno iniziato ad agire in difesa dei rakhine.

Il conflitto tra buddhisti e musulmani in questa regione del Myanmar ha le sue origini nella Seconda Guerra Mondiale, quando i rohingya rimasero fedeli alla colonia britannica, mentre i rakhine passarono dalla parte degli invasori giapponesi.
Entrambe le popolazioni hanno subito per decenni l’oppressione del governo birmano, ma i rohingya sono stati perseguitati sistematicamente nell’ottica di eliminare la loro presenza dal territorio birmano.

Nel 1978 vennero espulsi con la forza 200.000 rohingya e nel 1991 altri 250.000 furono costretti a rifugiarsi nel vicino Bangladesh. Da qui vennero rimandati indietro e il governo birmano decise di concentrarli nel nord del Rakhine State, limitando i loro diritti civili e la loro libertà di movimento. I rohingya non possono sposarsi o avere figli senza pagare una tassa al governo, possono vivere e lavorare in zone delimitate dal governo, non hanno un passaporto e non hanno nazionalità.

Complessivamente, secondo fonti ufficiali del governo, 152 rohingya e 59 rakhine hanno perso la vita negli scontri del 2012. Questa cifra non considera i rohingya morti nei campi profughi o nel tentativo di fuggire via mare verso la Thailandia e la Malaysia. Circa 125.000 persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, spesso rase al suolo, per finire in campi dove le loro libertà sono estremamente limitate.

Non possono muoversi autonomamente, né lavorare, né procurarsi del cibo. Chi cerca di offrire la propria solidarietà spesso è costretto a pagare mazzette alle forze dell’ordine per far passare qualche sacco di riso. Molti degli aiuti internazionali vengono requisiti e non raggiungono i campi. Molti rohingya stanno morendo e con l’arrivo della stagione delle piogge la situazione peggiorerà drammaticamente.

Ho incontrato Kalle Bergbom, inviato del giornale svedese Dagens Nyheter, al suo ritorno dal Rakhine State, proprio il giorno prima che HRW pubblicasse i risultati della sua indagine. Ha visitato tutti i campi profughi intorno a Sittwe, la città principale della regione, descrivendone le orribili e disumane condizioni di vita.

Si stanno diffondendo molte malattie, la malnutrizione riguarda tutti e le persone stanno, una dopo l’altra, morendo. Non è permesso uscire dai campi e il dramma è acuito dall’isolamento. La situazione è ancora più straziante per i 40.000 che vivono nei campi non registrati: non è loro concesso di ricevere tende e ricoveri temporanei distribuiti dalle Nazioni Unite. Non hanno nemmeno accesso alle razioni di cibo del World Food Program, né alle visite mediche. Sopravvivono di ciò che riescono a trovare nel campo giorno dopo giorno, raramente vengono aiutati con donazioni da amici e familiari fuori dai campi.

Talvolta chi vive nei campi registrati condivide le proprie razioni. La conseguenza di questi atti di generosità è che tutti soffrono terribilmente. La mattina di giovedì scorso, dopo un forte temporale, Kalle Bergbom è entrato in un campo, trovando davanti a sé "una catastrofe totale. La gente si spostava guadando l’acqua lurida e fangosa, mentre le loro capanne erano alluvionate e completamente distrutte. Una piccola neonata di appena 15 giorni è morta mentre mi trovavo lì. I suoi genitori non avevano potuto tenerla al caldo e al sicuro durante la notte".

La stagione delle piogge sta arrivando, ne ho testimoniato la dirompenza dalla mia protetta camera in muratura a Yangon. Sarà fatale per il popolo rohingya, bloccato dalle autorità tra le fragili capanne di bambù in cui ha vissuto negli ultimi mesi.

Se le violenze di giugno sono apparentemente sorte da mobilitazioni spontanee, degenerate in un drammatico effetto a valanga, quelle di ottobre mostrano i segni di un’azione organizzata. Rappresentanti dei gruppi politici rakhine, insieme a monaci anziani delle comunità locali, hanno apertamente portato avanti un’azione di denigrazione della popolazione musulmana, descrivendola come una minaccia per la comunità rakhine.

In numerosi distretti, anche a notevole distanza l’uno dall’altro, gruppi di rakhine armati di machete, molotov e armi fatte in casa hanno aggredito simultaneamente le comunità musulmane. Di nuovo, le forze dell’ordine sono intervenute sporadicamente, mai per placare la violenza, ma a supporto della popolazione rakhine.

La BBC ha riferito di aver ottenuto dalle autorità birmane un video che mostra la polizia a Meiktila, immobile mentre assiste all’assalto dei musulmani, senza intervenire a sedare le atrocità. Il culmine degli scontri si è raggiunto il 28 ottobre con la morte di settanta rohingya nel massacro del villaggio Yan Thei, nel distretto di Mrauk-U.

Secondo Silvia Di Gaetano, ricercatrice e analista di diritti umani, che si occupa da tempo dei diritti del popolo rohingya, "il 1982 è la chiave per rispondere alle questioni riguardanti la condizione dei Rohingya dal punto di vista legale, ma naturalmente la discriminazione non è solo legale: è aggravata dal razzismo diffuso tra i birmani e all’interno del governo del Myanmar. I rohingya, secondo la Citizenship Law del 1982, sono stranieri, poiché non rientrano in nessuno dei tre tipi di cittadinanza indicati (Citizens, Associate Citizens e Naturalized Citizens). In Myanmar sono veri e propri cittadini solo coloro che appartengono a uno degli otto gruppi etnici ufficialmente riconosciuti (Kachin, Kayah, Kayin, Chin, Mon, Bamar, Rakhine e Shan) o coloro che si siano stabiliti sui territori oggi inclusi tra i confini del Myanmar prima del 1823 (ovvero prima dell’arrivo dell’impero britannico). Con la legge del 1982, il governo esclude i rohingya, poiché la maggior parte di loro non è in possesso della documentazione necessaria a comprovare la propria presenza sul territorio prima del 1823."

Quali sono le soluzioni possibili per garantire ai rohingya i loro diritti? "Questo è il momento in cui il governo del Myanmar può rivedere la Citizenship Law. Il clima di riforme, unito alla presidenza dell’ASEAN nel 2014 e al primo censimento generale della popolazione in trent’anni, può creare quel contesto di pressioni internazionali utile a cambiare la situazione."
E per l’immediato? Che ne sarà delle decine di migliaia di profughi nei campi non riconosciuti? "Anche in questo caso sta al governo del Myanmar decidere di permettere agli aiuti internazionali di intervenire, concedendo a tutti i profughi di vivere in campi riconosciuti."

Ciò che l’indagine di Human Rights Watch intende sottolineare è il coinvolgimento, diretto e indiretto, del governo birmano. Questo risulta nel mancato intervento delle forze dell’ordine (polizia locale, squadre anti-sommossa e i Nasaka, le forze dell’ordine di frontiera) a placare gli scontri e nella saltuaria partecipazione alle violenze dirette contro i rohingya.
Nel caso del Rakhine State, HRW parla di pulizia etnica e di crimini contro l’umanità. Il riferimento è diretto all’etnia rohingya. Ma il report segnala che, a partire da ottobre, il target si è ampliato, iniziando a comprendere la popolazione musulmana in generale.

La gravità dell’inazione del governo nei fatti del 2012 è resa ancor più drammatica dagli episodi di marzo 2013, in cui la comunità musulmana di Meiktila (nel distretto di Mandalay, nel centro del paese) ha subito l’attacco dei buddhisti, guidati dagli stessi monaci.

Un litigio, provocato dalla compra-vendita di una spilla d’oro in un negozio di Meiktila, ha innescato una catena di brutalità tra buddhisti e musulmani che ha portato alla morte di 43 uomini. Di questi la maggior parte è musulmana, ma vi è tra loro anche un monaco buddhista, intercettato mentre viaggiava su un motorino, picchiato e bruciato vivo.

L’odio contro i musulmani si sta diffondendo massicciamente tra la popolazione buddhista. Questo pericoloso fenomeno è promosso da un monaco che si fa chiamare "il combattente buddhista" o il "Bin Laden buddhista". Si tratta di U Wira Thu, condannato nel 2003 a 25 anni di prigione per aver istigato scontri in cui nel 2003 persero la vita dieci musulmani. U Wira Thu ha fondato nel 2001 il movimento 969, di matrice razzista e anti-islamica. Attraverso una vasta campagna costruita con discorsi pubblici, dvd, video su Youtube e interventi su Facebook sta raccogliendo sempre più adepti.U Wira Thu sostiene che la minoranza musulmana voglia assumere il potere in Myanmar, schiacciando la millenaria tradizione buddhista.

Il razzismo birmano trova facile sfogo nell’odio e nella violenza e il fenomeno 969, in forte diffusione (come dimostrano gli adesivi con il loro simbolo, ormai sempre più visibili), sfrutta l’ignoranza di un popolo soggiogato dalla dittatura per cinquant’anni. I birmani, semplicemente, non hanno esperienza dei processi democratici, non hanno coscienza dei diritti umani, non hanno risposte da dare alla paura che il cambiamento sta suscitando nel paese.

Il governo, e in particolare la sua ala più conservatrice, non si sta assumendo alcuna responsabilità, né accenna a voler intraprendere e sperimentare meccanismi genuinamente democratici. Approfitta invece degli scontri per rallentare le riforme e continuare a esercitare il suo potere, in questo caso -si direbbe- in maniera ancora più subdola che ai tempi dei generali.
Ad aprile del 2012, dopo l’elezione in Parlamento di Aung San Suu Kyi, l’UE ha sospeso le sanzioni verso il Myanmar, indicando le seguenti condizioni perché si raggiungesse la loro abolizione: rilascio di tutti i prigionieri politici, termine dei conflitti armati, riconoscimento dei rohingya e accesso facilitato degli aiuti umanitari nelle zone colpite dai conflitti interni.
Queste condizioni sono state ignorate nella decisione di lunedì 22 aprile.

Il giorno seguente, il governo di Naypiydaw, ha rilasciato diverse decine di prigionieri politici (riducendo a circa un centinaio il numero di quelli che rimangono in carcere), ma, per quanto riguarda i conflitti nel Kachin State, nel Shan State e la condizione dei rohingya, finora non è arrivato alcun segnale positivo né una replica diretta alle gravissime accuse poste da HRW.

La commissione d’inchiesta istituita dal governo del Myanmar per indagare sui fatti accaduti nel Rakhine State ha rilasciato un report il 29 aprile. Senza individuare né responsabilità né interventi per affrontare l’emergenza, il rapporto ha confermato un approccio non professionale e parziale ai fatti e all’analisi di questi. Salvo il riferimento alla necessità di rafforzare il proprio esercito, il governo non individua le soluzioni che dovrebbero essere implementate per risolvere questa gravissima crisi, non solo nazionale, considerati i profughi che stanno raggiungendo Bangladesh, Thailandia, Malaysia e Indonesia.

Al momento, sembra dunque che il governo voglia ignorare il problema e rimandare a un momento indefinito la risoluzione della questione, come la si potesse rimuovere a parole. Mentre il nuovo Myanmar si prepara a effettuare nel 2014 il primo censimento nazionale in trent’anni, ancora non si sa come verranno chiamati e conteggiati i rohingya.

*Ilaria Benini lavora come ricercatrice indipendente a Yangon, Myanmar. Laureata in Sociologia della Comunicazione, sta svolgendo la fase di ricerca sul campo del progetto "Myanmar and Media. An Ethnographic and Visual Research about old media, new media and perception of change". Ha viaggiato in Myanmar, Indonesia, Timor Leste, Cambogia, Laos, Malaysia, Thailandia

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