Mondo Asean – Siccità nel Mekong: come mitigare i rischi ambientali

In Mondo Asean, Sud Est Asiatico by Redazione

Siccità: Il Mekong è tra i corsi d’acqua più lunghi del continente asiatico e rappresenta non solo una vitale fonte di sostentamento per le popolazioni che vivono nel suo bacino idrografico, ma anche un oggetto di contesa tra i governi locali. L’ASEAN può giocare un ruolo fondamentale nella promozione della cooperazione regionale e del dialogo con la Cina.

L’Associazione Italia-Asean nasce nel 2015. La sua missione è quella di rafforzare il legame e rendere più evidenti le reciproche opportunità, sia per le imprese che per le istituzioni. Qui pubblichiamo la newsletter Italia-Asean del 25 marzo.

Il Mekong nasce sull’altopiano tibetano in Cina e si snoda per più di 4000 chilometri attraversando Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam prima di sfociare con un ampio delta nel Mar Cinese Meridionale.  Il fiume ricopre un ruolo chiave nella regione del Sud-Est asiatico: dalle sue acque dipendono non solo il sostentamento di oltre 60 milioni di persone, ma anche gli equilibri geopolitici regionali.

Per il quarto anno consecutivo, la regione si avvia ad affrontare un’emergenza idrica che, oltre a risentire dell’aggravamento della crisi climatica, riflette la conflittualità che caratterizza le politiche di gestione dei flussi. La Mekong River Commission (MRC) – organizzazione intergovernativa che raccoglie Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam, i quattro Paesi del basso bacino fluviale – ha citato “bassi flussi regionali, fluttuazioni idriche e siccità” tra i rischi che le autorità locali sono chiamate ad affrontare con urgenza. Il governo cambogiano ha comunicato che le precipitazioni della stagione delle piogge “non saranno sufficienti per soddisfare i bisogni immediati” e ha raccomandato un utilizzo parsimonioso delle preziose risorse idriche, in particolare nelle zone rurali.

Come evidenziato nell’ultimo rapporto della Mekong River Commission pubblicato a inizio gennaio, le significative anomalie che hanno colpito il regime idrologico a partire del 2015 sono il risultato della pericolosa combinazione tra rischi naturali e pressione antropica. La scarsità di precipitazioni si somma alle attività di sfruttamento intensivo delle acque, esacerbando l’impatto devastante su ecosistemi, attività economiche e sul sostentamento delle popolazioni locali. 

Secondo quanto emerge da uno studio congiunto realizzato dallo Stimson Center e dalla società di ricerca Eyes on Earth, in alcune aree del bacino del Mekong “il prelievo di acqua e il rilascio innaturale delle dighe hanno completamente alterato il flusso naturale del fiume”. L’acqua viene infatti trattenuta dai sistemi di stoccaggio durante la stagione umida, mentre i flussi aumentano relativamente nella stagione secca, quando però il livello delle acque è troppo basso per fare la differenza.

La competizione per il controllo dei flussi del Mekong è resa manifesta dal numero di dighe che continuano a sorgere lungo il suo percorso: undici le principali, la maggior parte delle quali si trova in territorio cinese, a cui vanno sommate le centinaia di costruzioni minori costruite lungo gli affluenti e utilizzate per le attività di pesca e agricoltura. Fin dagli anni ‘90, Pechino è stata impegnata in un ambizioso progetto idroelettrico che si è sostanziato nella costruzione di dighe e centrali lungo corso superiore del fiume nella provincia meridionale dello Yunnan. Inoltre, attraverso la concessione di ingenti finanziamenti, le autorità cinesi hanno appoggiato le ambizioni del vicino laotiano, che non ha fatto segreto di voler puntare sull’idroelettrico per convertirsi nella “batteria d’Asia” e rilanciare la propria economia.

In risposta ai crescenti rischi – con i livelli del fiume che raggiungono i valori più bassi livelli mai registrati negli ultimi 60 anni – la Mekong River Commission invita i sei Paesi coinvolti “ad agire con determinazione” e suggerisce l’istituzione un meccanismo di notifica comune sulle fluttuazioni anomale del livello dell’acqua e un sistema coordinato di gestione di bacini e dighe.

Nonostante la Cina abbia negato le accuse di approfittare della posizione strategica a monte del fiume per capitalizzare unilateralmente le acque comuni ed esercitare pressione politica sui Paesi vicini, la riluttanza a condividere i dati relativi al funzionamento delle dighe e la stessa assenza all’interno della Mekong River Commission evidenziano il persistere di tensioni politico-diplomatiche che compromettono la cooperazione regionale in tema di gestione delle risorse.

Secondo gli esperti dello Stimson Center e di Eyes on Earth, la soluzione migliore sembrerebbe essere un accordo internazionale di condivisione dell’acqua che garantisca “un livello di base del flusso dalle dighe a monte durante i periodi di siccità”, con l’obiettivo di scongiurare crisi future e attenuare simultaneamente la sfiducia nei confronti della Cina. 

In questo contesto, si rende necessaria una più stretta sinergia tra i segretariati della MRC e dell’ASEAN. L’Organizzazione può infatti contribuire a dare maggiore centralità al progetto di gestione sostenibile e coordinata del Mekong all’ interno dell’agenda politica regionale. Simultaneamente, resta cruciale il ruolo dell’ASEAN nel promuovere un percorso di sviluppo condiviso e sostenibile con la partecipazione della Cina, la quale auspicabilmente non resterà a lungo indifferente a fronte dei vantaggi reciproci che una convivenza pacifica lungo il fiume più produttivo della regione potrebbe offrire.

A cura di Michelle Cabula

 

ASEAN: infrastrutture per ripartire

Infrastrutture digitali e commerciali sono la chiave per la ripresa post pandemia del Sud-Est asiatico, secondo la Banca Asiatica di sviluppo. Il presidente dell’ADB Masatsugu Asakawa, in un discorso di apertura al “Southeast Asia Development Symposium 2022”, tenutosi il 16 marzo scorso, ha affermato che “la regione ha bisogno di un turismo rispettoso del clima, catene di approvvigionamento e imprese digitali per riprendersi da una pandemia che ha già tagliato il 10 per cento dell’economia del Sud-Est asiatico”. Va in questa direzione la decisione della Banca di fornire 100 miliardi di dollari di finanziamenti dal 2019 al 2030 per garantire un’economia pulita che funzioni per tutti. Secondo il rapporto presentato durante il Simposio, l’economia digitale dovrebbe più che raddoppiare a 350 miliardi di dollari entro il 2025 nella regione e il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) è diventato uno dei principali motori della ripresa dal 2020, quando i servizi e altri settori importanti sono stati duramente colpiti dalla pandemia COVID-19. Pertanto, saranno i settori ICT, agricoltura, costruzione e produzione a guidare il cambiamento della struttura economica  e determinare il ritmo della ripresa. Inoltre, l’impatto della pandemia sull’occupazione è stato generalmente più grande su donne, giovani e lavoratori in micro, piccole e medie imprese e quindi serviranno protezioni sociali più solide. In questo scenario, si aggiunge la guerra in Ucraina e l’aumento dei prezzi dell’energia che porteranno ad un aumento dell’inflazione nella regione, oltre ad avere un potenziale impatto sulla domanda globale e sugli investimenti. Secondo il Direttore Generale dell’ADB, Ramesh Subramaniam, la Banca dovrà rivedere le sue proiezioni economiche in aprile, anche se l’impatto immediato sulla crescita della regione sarà probabilmente limitato. Il Sud-Est asiatico sperava in una ripresa costante quest’anno ma i rischi al ribasso sono ora fin troppo reali, a causa della possibile frattura delle catene di approvvigionamento, dell’aumento del petrolio e di altre materie prime, senza contare l’instabilità geopolitica.

 

Risorse energetiche, i nodi da risolvere

La guerra russo-ucraina ha scosso bruscamente i mercati dell’energia globale. Per i Paesi importatori di risorse energetiche, come molti di quelli del Sud-Est asiatico, è ormai evidente che persino un conflitto esploso dall’altra parte del mondo può compromettere il loro futuro economico da un momento all’altro. Secondo l’esperta Vandana Hari, seguire gli effetti della guerra sui mercati energetici può dirci qualcosa delle trasformazioni delle relazioni economiche globali nel futuro. Prima di tutto, le sanzioni economiche imposte alla Russia, come il divieto di esportare risorse energetiche, hanno effetti immediati sul prezzo del petrolio. Ma il fenomeno più importante rispetto alle turbolenze nella fornitura di energia è il venir meno della sicurezza degli scambi tra Paesi produttori e consumatori. Come sostiene Vandana Hari, questo si declina in un “debilitante deficit di fiducia” che rischia di durare a lungo. Le economie asiatiche importatrici di petrolio e gas, secondo l’esperta, dovrebbero combattere la dipendenza dall’approvvigionamento energetico. L’incertezza legata ai mercati energetici crea una serie di effetti a catena anche rispetto agli impegni sul clima: data l’instabilità nella fornitura e il susseguirsi di shock, queste economie difficilmente potranno attuare quei piani di espansione economica cui sono legati gli obiettivi di emissioni zero di CO2. Ricorrere infatti a misure regressive, come la limitazione dei prezzi della benzina o il ritorno ai sussidi, secondo Vandana Hari non farà che aumentare il debito del settore pubblico e infierire nel processo di transizione verso forme di energia pulita. In questo scenario, l’OPEC si è comunque rifiutata di aumentare l’offerta di petrolio per contenerne i costi, rendendo la guerra in Ucraina un’incombenza per la vita quotidiana di tutti i grandi e piccoli consumatori. Tutti i governi importatori di energia del Sud-Est asiatico devono capire che “nonostante la neutralità politica” dovranno lavorare sulla sicurezza dell’approvvigionamento energetico se vorranno evitare che le risorse energetiche diventino “le armi della guerra moderna”.