Mekong, dopo il summit di Sanya

In by Gabriele Battaglia

Tanta Cina lungo il corso del fiume. Prestiti e investimenti per dare sviluppo ai Paesi a valle, secondo il modello win-win, che qui però è «alle porte di casa». Tra ragioni economiche e ambientali, resta un po’ in sospeso la delicata questione delle risorse idriche: a diversi attori e interessi corrispondono diverse funzioni del Mekong. Vedi anche: Ecosistema Mekong

«Se tutti i progetti legati alla nuova Via della Seta fossero approvati e se tutto il ferro e il cemento di tali progetti fossero cinesi, la Cina utilizzerebbe solamente il dieci per cento della propria sovrapproduzione industriale». Così parlò Arthur R. Kroeber, fondatore dell’istituto di ricerca Gavekal Dragonomics. Se ne evince che la fetta di oversupply consumata da tutto Sudest Asiatico – inserito dalla stessa Cina nel concetto così onnicomprensivo di One Belt One Road – sarebbe ancora più infima. Eppure, in conclusione del summit della neonata Lancang-Mekong Cooperation, il premier cinese Li Keqiang ha proprio messo l’accento sul fatto che le nuove strade e ferrovie che Pechino costruirà a valle, nei Paesi attraversati dal grande fiume, aiuteranno la Cina a superare le «pressioni al ribasso» che sta soffrendo la proprie economia. Cioè a risolvere il problema di eccesso di capacità.

In realtà c’è molto di più e, da quanto è uscito dal summit, sembra quasi di assistere alla riedizione del sistema degli «Stati tributari» di imperiale memoria.
In base alla dichiarazione congiunta in chiusura del summit di Sanya, Pechino offrirà 10 miliardi di yuan (1 miliardo e 365 milioni di euro) in prestiti preferenziali e 10 miliardi di dollari in altre forme di credito a Thailandia, Myanmar, Cambogia, Laos e Vietnam, per costruire infrastrutture e creare attività industriali destinate a migliorare la cooperazione regionale. Si spazia dalle ferrovie ai parchi industriali.
Sono espliciti i riferimenti alle due linee ferroviarie che collegheranno la provincia cinese dello Yunnan con la capitale del Laos, Vientiane, e con quella della Thailandia, Bangkok. Sono il primo passo verso una rete pan-asiatica che dovrebbe arrivare fino a Singapore, passando per la Malaysia.
A questi progetti si aggiungono quelli per la riduzione della povertà: 200 milioni di dollari in aiuti e 300 milioni per finanziare piccoli-medi progetti di cooperazione nel corso dei prossimi cinque anni.

A sovrintendere il tutto e a trasmettere ulteriormente la sensazione di una leadership cinese, il fatto che Li Keqiang abbia chiesto esplicitamente che negli accordi si faccia sempre più uso del Renminbi (RMB), sottolineando che «il tasso di cambio del RMB sarà sostanzialmente stabile a un livello ragionevole ed equilibrato nel lungo periodo».
È uno schema consolidato: la Cina presta soldi affinché i dirimpettai commissionino grandi opere a imprese cinesi. È il modello win-win che Pechino applica ovunque.
Tuttavia, questo win-win è alle porte di casa. Sembra quindi che la Cina intenda fare le prove generali per l’internazionalizzazione della propria valuta attraverso meccanismi di cambio transfrontaliero non ancora dettagliati. Tempo fa, era sorta l’ipotesi volesse sperimentare «uno yuan regionale» prima di gettarsi nel mare magnum della speculazione finanziaria internazionale.

Nel modello di sviluppo della Cina, c’è il culto quasi maniacale della stabilità necessaria a garantire la propria «crescita pacifica». Tuttavia, lungo il corso del Mekong le tensioni non mancano: guerre di confine in Myanmar, confronto nel mar Cinese Meridionale con il Vietnam e l’insoluta questione delle dighe costruite sul fiume (entro il 2030 dovrebbero essere circa 70), solo per citare i maggiori problemi.
Prima del summit della Lancang-Mekong Cooperation, Pechino ha perciò compiuto un gesto di buona volontà nei confronti dei dirimpettai – che stanno soffrendo la peggiore siccità degli ultimi novant’anni – lasciando fluire l’acqua dalla diga di Jinghong verso valle. Fino al 10 aprile.

La questione Mekong è un paradosso: non può che essere gestita comunemente, ma i sei Paesi lungo il suo corso hanno interessi spesso diametralmente opposti. È questo per esempio il caso di Laos e Vietnam. Il primo, che sta a monte del secondo, sposa la Cina nel sostenere che il grande fiume è «la batteria del Sudest Asiatico». Punta quindi a ottenere dall’energia idroelettrica il 70 per cento dei ricavi relativi al proprio export. Energia che Vientiane pensa di esportare, manco a dirlo, proprio nell’energivora Cina.
La parte vietnamita del delta del Mekong, la regione Cuu Long, rappresenta invece il 33 per cento dei prosperoso settore agricolo del Vietnam e il 90 per cento delle sue esportazioni di riso, che come volume sono al terzo posto a livello globale. Ecco che le dighe laotiane sono un problema per il riso vietnamita.
Da questo punto di vista, il summit di Sanya ha partorito il classico topolino: si è deciso di creare un centro di coordinamento congiunto sulle risorse idriche, che lavori di cesello per mantenere un equilibrio tra le esigenze energetiche (dighe, elettricità) e quelle ambientali (alluvioni, siccità). Non regole scritte, ma l’avviamento di un processo. Era scontato, molto più del flusso d’acqua lungo il corso del Mekong.