Mentre i prezzi globali del petrolio gravitano attorno a minimi storici, la Cina – consumatore energivoro – ha moltiplicato le proprie importazioni di greggio. A Wall Street, venerdì scorso, i futures sul greggio hanno chiuso a 48,69 dollari al barile. C’è chi scommette che nel corso dell’anno potrebbero riassestarsi sui 60-70 dollari.
Reuters stima che gli acquirenti locali abbiano acquistato oltre 31 milioni di tonnellate di greggio a dicembre, con un aumento del 10 per cento mese su mese. Da parte sua, l’amministrazione delle Dogane fa sapere che nel 2014 le importazioni sono aumentate del 9,5 per cento, raggiungendo 310 milioni di tonnellate.
Da un lato, Pechino coglie l’attimo per aumentare le scorte. Secondo un rapporto pubblicato questo mese da China National Petroleum Corporation – il gigante petrolifero di Stato – le riserve della Cina ammontavano a 140 milioni di barili alla fine del 2013. Le autorità prevedono di aumentarle fino a 600 milioni di barili entro il 2020.
Dall’altro lato, i grandi raffinatori locali vogliono veder crescere i propri profitti e, quindi, risparmiare al momento dell’acquisto mantenendo inalterati i prezzi al dettaglio. La Cina è un Paese che dipende dal petrolio straniero in misura sempre maggiore. Nel 2014, il 59,6 per cento del greggio è arrivato dall’estero, rispetto al 58,1 del 2013. Questa dipendenza costa. Le petromonarchie del Golfo Persico concedono sconti? Tanto meglio.
Se le multinazionali energetiche cavalcano l’onda ribassista, altri player cinesi scommettono invece su un futuro aumento dei prezzi e investono in giacimenti all’estero. È questo il caso di Global House Buyer – un broker con sede a Pechino – che incanala i propri investitori verso sei pozzi di petrolio in costruzione a Crockett County, Texas. Fonti della società rivelano al Global Times che il progetto vuole attirare quattro milioni di dollari in investimenti nella prima fase e che il rendimento annuale potrebbe oltrepassare il 12 per cento.
“Il ritorno si basa sulla nostra previsione a proposito dei futuri prezzi del petrolio”, dice Liu Bin, responsabile degli investimenti negli Usa, che fa notare come la politica dei pozzi sia tutto sommato “come un investimento immobiliare” (gira e rigira, sempre lì si finisce). A Wall Street, venerdì scorso, i futures sul greggio hanno chiuso a 48,69 dollari al barile. C’è chi scommette che nel corso dell’anno potrebbero riassestarsi sui 60-70 dollari.
Insomma, in un senso o nell’altro, la Cina cerca di cogliere l’attimo sul fronte economico-finanziario. Ma su quello politico, Pechino sarebbe in realtà preoccupata per quanto sta succedendo. È questo il parere di Matt Ferchen – un ricercatore del Carnegie-Tsinghua Center for Global Policy di Pechino – secondo cui suscita timori il probabile effetto destabilizzante dei prezzi bassi sui Paesi produttori.
“La sicurezza energetica cinese è in realtà sempre a rischio”, spiega. “Non è tanto questione di prezzi, bensì di assicurare trasporti e mercati. Il calo del greggio non risolve questi due problemi ma, anzi, mette in crisi il modello di relazioni south-south o win-win della Cina”.
L’esempio viene dal presidente venezuelano Maduro, giunto a Pechino a inizio gennaio a chiedere esplicitamente aiuti cinesi per il suo Paese in crisi. Pare che un accordo da 20 miliardi di dollari in investimenti energetici sia stato sottoscritto, ma la Cina, che ha già prestato al Venezuela 40 miliardi negli ultimi cinque anni ed è il maggiore creditore del Paese sudamericano, comincia ad avere la sensazione di buttare soldi in un pozzo senza fondo.
Pechino vuole stabilità e prevedibilità, non responsabilità da grande player globale. O almeno, non ancora. Attorno alla questione petrolio si intravedono quindi interessi divergenti tra le grandi multinazionali cinesi e la politica estera di Pechino. Sarebbe la prima volta ed è piuttosto contraddittorio, dato che continuano a dipendere dalla stessa stanza dei bottoni.
[Scritto per il Fatto quotidiano]