La nuova prospettiva dei media cinesi

In by Simone

Xuanchuan ovvero, propaganda. Ma anche, letteralmente, pubblicità e quindi il mestiere dell’ufficio stampa. E di cosa ha bisogno la Repubblica popolare a questo punto, se non di un buon ufficio stampa? Il softpower attraverso il mondo dei media, cinesi.

L’agenzia stampa Xinhua, voce del Partito, dopo aver aperto i suoi uffici in Times Square, al centro di New York, è oggi un colosso  che impiega 11mila persone e ha 107 uffici di corrispondenza sparsi per il mondo. Obiettivo dichiarato: combattere i pregiudizi con cui i media occidentali raccontano il Dragone: con 100 milioni di spettatori, uffici in tutto il mondo e trasmissioni in inglese.

A Times Square, la piazza più famosa della metropoli più europea dell’impero americano, l’agenzia di stampa Xinhua (letteralmente Nuova Cina), ovvero la voce del governo cinese e quindi del Partito, ha comprato un maxi-schermo a led.

Con la stessa potenza visiva delle pubblicità di Samsung e Coca Cola, trasmette ventiquattr’ore su ventiquattro in cinese e in inglese: promozione della stessa agenzia e immagini della Cina. Lo slogan è a new perspective: una nuova prospettiva.

Dopo essersi comprata uno degli spazi pubblicitari più in vista dell’intero pianeta, gli uffici di Xinhua si sono trasferiti all’ultimo piano di un grattacielo di Broadway, lo stesso che ospita il colosso di informazione economico finanziaria Thomson Reuters.

È l’ultimo passo del servizio in lingua inglese lanciato nel 2010 dall’agenzia di stampa: China Network Corporation o CNC World. Un servizio all news 24 ore su 24 che punta a raggiungere 50 milioni di telespettatori nel mondo. Il punto di vista della nuovissima Cina deve cominciare a farsi sentire.

Quando è nata, nel 1931, il Partito comunista stava ancora lottando disperatamente per la propria sopravvivenza. Oggi, l’agenzia è un colosso multimediale che impiega 11mila persone – di cui 5mila giornalisti – ha 31 uffici in Cina e 107 uffici di corrispondenza sparsi per il mondo.

Fornisce almeno un quarto dei contenuti delle testate nazionali ed è il gruppo editoriale a cui fanno capo oltre 20 giornali e una decina di riviste in 8 lingue. Il suo network televisivo – ricorda la stessa agenzia – raggiunge ormai 5 miliardi e mezzo di persone sparse per il globo.

Chi obietta che, essendo di proprietà statale, Xinhua non è una fonte di notizie affidabile su molti temi, non ha troppa voce in capitolo.

Gli affari sono affari. A ottobre del 2009 l’Empire State Building si accese dei colori della bandiera cinese per commemorare i sessant’anni dalla fondazione della Repubblica popolare, con buona pace delle proteste degli attivisti per i diritti umani.

La “nuova prospettiva” quella del Partito comunista cinese, invece, sostiene che la crescita di Xinhua debba servire da bilanciamento ai pregiudizi con cui i media occidentali raccontano la Cina.

L’idea della leadership è quella di rinnovare l‘immagine del paese e di fare in modo che la sua voce sia consona al sempre maggiore peso che acquista nella politica economica mondiale.

Lo stesso approccio, che potremmo quasi ricondurre a una volontaria e convinta costruzione del marchio Cina, è probabilmente quello che ha portato al cambio del nome del canale in lingua inglese della televisione di stato, da Cctv 9 a Cctv English. E, ancora più evidentemente, all’apertura di Cctv America e Cctv Africa.

In poco meno di cinque mesi, Cctv America ha assunto 65 persone e punta ad arrivare a cento dipendenti per le presidenziali americane il prossimo novembre.

E non si tratta di personale qualunque. Con stipendi in alcuni casi anche il 20 per cento più alti della media, si è assicurata professionalità con esperienza maturata in testate quali Al Jazeera, Fox News e Bbc. Ha cominciato a trasmettere il 6 febbraio di quest’anno poche settimane dopo l’inaugurazione degli studi a Nairobi di Cctv Africa.

Secondo i dati della stessa Cctv, l’emittente di stato trasmette in 120 paesi raggiungendo un’utenza di cento milioni di spettatori. Ed è da paragonarsi a tutte le altre emittenti statali. La Cctv sta alla Cina, come la Bbc sta al governo britannico, France 24 alla Francia e Russia Today alla Federazione russa.

Ognuno è libero di valutare indipendentemente se questi media fanno o no gli interessi dei governi a cui fanno riferimento. L’idea della Cctv nelle nuove redazioni di Africa e America non è quella di avere una linea stabilita su quelli che in Cina sono chiamati “argomenti sensibili”, ma di valutare “caso per caso”. In sintesi dichiarano che faranno un giornalismo più libero che in patria.

È impressionate il tempismo di queste operazioni. Avviene proprio adesso, quando il controllo sui movimenti politici ed economici della Cina si fa più intenso e l’immagine della seconda potenza economica mondiale si fa più complicata.

Gli investimenti e le riserve in moneta estera cinesi supportano in maniera sostanziale l’economia statunitense (e l’Europa spera a breve di affidargli anche la propria), ma in Occidente non siamo in grado di vedere altro che il nostro terrore di essere invasi da cinesi e cineserie che non siamo in grado di comprendere. Come se la colpa dello stato in cui versano l’economia e la finanza mondiale fosse la loro.

Nei paesi africani poi, la Cina porta infrastrutture incentivando le economie locali in cambio di materie prime. Ed è allo stesso tempo accusata di favorire l’impiego della propria manodopera rispetto alla manodopera locale.

Alle accuse di collaborare con governi poco trasparenti – per usare un eufemismo – e di agire come le tanto criticate potenze coloniali di fine Ottocento, la Cina risponde che sono invece la prima potenza a trattare con loro senza guardarli dall’alto in basso e nel rispetto delle specificità dei governi locali.

Viene esportato il principio della non ingerenza, dunque. E, come in patria, la Cctv Africa prediligerà le buone notizie alle cattive, perché anche gli africani sono stufi di vedere come nei media internazionali si raccontino solo le loro miserie.

L’annuale sessione del Comitato centrale del Partito comunista cinese quest’anno ha concluso la sua sessione plenaria promettendo di aumentare il ruan quanli, ovvero il soft power, la capacità di uno stato di esercitare fascino attraverso risorse intangibili come la propria cultura.

La Repubblica popolare aveva già cominciato con gli Istituti Confucio (5 mila insegnanti di lingua cinese mantenuti dal Ministero dell’Istruzione cinese in ogni angolo della terra) e una serie di personalità che nell’ultimo anno hanno fatto sentire la propria voce su importanti media stranieri.

Primi tra tutti il vice-premier Li Keqiang e il premier Wen Jiabao sul Financial Times. In tempi diversi, il primo spiegava perché il mondo non avrebbe dovuto temere l’ascesa economica della Cina e il secondo cercava di convincere l’Occidente degli strumenti con i quali il suo paese avrebbe contenuto l’inflazione.

Ma noi, abituati al soft power americano del dopoguerra, ci domandavamo increduli se sarebbe stato mai possibile per gli occidentali amare il qipao (tradizionale abito femminile cinese) quanto abbiamo amato i jeans dopo gli anni Cinquanta.

C’eravamo figurati un’esplosione di mode improbabili: caramelle di carne secca al posto delle chewing gum, baijiu a sostituire il whisky e l’opera di Pechino invece del rock&roll. Avevamo riso e ci eravamo tranquillizzati: impossibile.

Non avevamo pensato che il soft power cinese potesse conquistarci in una maniera del tutto differente, con lo strumento che il Partito comunista cinese sa usare meglio: xuanchuan ovvero, la propaganda. Ma anche, letteralmente, la pubblicità e quindi il mestiere dell’ufficio stampa. E di cosa ha bisogno la Repubblica popolare a questo punto, se non di un buon ufficio stampa?

[Scritto per Linkiesta]