La legalità “alla cinese”: legge vs guanxi

In by Simone

Dieci anni dopo la pubblicazione del volume La Cina non è per tutti, curato nel 2005 da Maria Weber, alcuni dei maggiori esperti del mondo accademico e delle imprese italiane riflettono sulle attuali criticità e opportunità del mercato cinese. Anche oggi il paese esige ingenti investimenti di risorse, organizzative e finanziarie per operarvi con successo. Un estratto di La Cina non è ancora per tutti (per gentile concessione di Edizioni Olivares).
Ci si è chiesto e ancora oggi ci si chiede spesso tra gli operatori economici italiani se il diritto, le leggi, la giustizia, i contratti abbiano in Cina lo stesso valore, la stessa efficacia che hanno nel mondo occidentale. L’opinione diffusa è che le aziende cinesi – partner o concorrenti che siano – tendano a non considerare troppo seriamente gli aspetti giuridici dell’attività d’affari, e a riferirsi più spesso e con maggior fiducia a sistemi di regole diversi da quello legale. Più delle norme e dei contratti, cioè, in Cina conterebbero i rapporti politici e personali e, in caso di contenzioso, più che alla giustizia dei tribunali si farebbe affidamento a forme di mediazione e conciliazione fondate proprio sui rapporti politici e personali. Tale opinione riflette un’idea di fondo: quella che il diritto, e dunque anche gli obblighi giuridici, rivestano in Cina un ruolo molto minore, o comunque meno centrale di quanto non avvenga in Occidente. Tale idea, a sua volta, trova fondamento in due delle principali caratteristiche del sistema politico e istituzionale cinese.

La prima caratteristica consiste nella secolare tradizione che vede nel diritto non un sistema scientifico, tecnico e professionale indipendente dalle altre branche della pubblica amministrazione, ma uno qualunque degli strumenti al servizio del governo e nemmeno uno tra i più importanti. Tale tradizione riconosce un valore prioritario all’armonia e alla stabilità sociale e, per ottenerle, si ritiene che la meccanica leggi/diritti/obblighi tipica della cultura politica occidentale sia inadeguata, e che piuttosto si debba preferire un costante contemperamento, flessibile e dinamico, degli interessi in gioco. La concezione fortemente gerarchica dei rapporti sociali, di derivazione confuciana, gioca poi un ruolo importante nel limitare l’importanza e la portata della nozione dei diritti soggettivi: l’idea stessa che la legge affermi diritti pieni e assoluti e che i tribunali debbano tutelarli anche contro un soggetto “superiore” o contro un ipotetico interesse pubblico è intesa come una manifestazione di individualismo antisociale e vista con grande sfavore.

La seconda caratteristica è la natura socialista della Repubblica Popolare Cinese, che su tale substrato tradizionale ha innestato alcuni principi e meccanismi istituzionali altrettanto poco compatibili con i delicati equilibri della legalità, primi tra i quali il principio di unità dei poteri dello Stato e quello del ruolo guida del Partito comunista cinese (PCC). Anche la commistione – strutturale in un sistema socialista – tra economia e politica, o tra imprese e amministrazione, spinge all’utilizzo di forme relazionali diverse da quelle legali o giuridiche.

Oggi, dopo la riforma trentennale che ha trasformato le istituzioni cinesi, modernizzandole e affrancandole, almeno in parte, dall’eredità sovietica e dall’ideologia maoista, il diritto cinese è esplicitamente fondato sul principio di legalità (beninteso, socialista): “La Repubblica Popolare Cinese attua il governo dello Stato per mezzo della legge per costruire uno stato socialista di diritto” (art. 5,1 Costituzione).

Legalità “alla cinese” significa innanzitutto che gli organi dello Stato sono tenuti a rispettare la legge. D’altra parte, non è riconosciuta la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e dunque non vi sono organi di controllo della costituzionalità delle leggi e non è riconosciuta l’indipendenza della magistratura come corpo statale a sé. Legalità significa poi che oggi in Cina vi è una legislazione moderna e articolata, che riprende e adatta modelli occidentali, in particolare europei. Dopo trent’anni di ricostruzione dell’apparato giuridico, uscito letteralmente in macerie dall’epoca maoista, oggi anche in Cina leggi, decreti e regolamenti disciplinano pressoché ogni settore dei rapporti sociali. Vi è un linguaggio tecnico sofisticato e una notevole professionalità tra i giuristi, sia nella pubblica amministrazione sia nel settore privato; nei grandi studi legali di Pechino o Shanghai gli avvocati svolgono un lavoro molto simile a quello dei loro colleghi occidentali e nei curricula degli avvocati che interagiscono con gli stranieri non è difficile trovare master universitari o esperienze professionali all’estero.

Legalità significa dunque anche che l’immensa discrezionalità di cui tradizionalmente godeva la burocrazia si va riducendo giorno per giorno e ogni nuova legge è un mattone del muro che ne circoscrive i poteri. L’amministrazione ha ancora un enorme peso e un enorme potere, ma la sua “mano” è un po’ meno “visibile”: lo Stato non controlla più direttamente e imperativamente le imprese, ma controlla il mercato, e il Partito non indirizza quasi più la pubblica amministrazione attraverso azioni politiche dirette e particolari, quanto attraverso l’emanazione di atti normativi generali e astratti. La politica del Partito, cioè, diviene sempre più spesso norma, o legge, dello Stato.

Ciò che è enormemente cambiato in questi anni è dunque il metodo di governo, che oggi si fonda sulla legge e sulla legalità assai più che in passato. Tuttavia in Cina le leggi rimangono qualcosa di ben diverso dall’espressione di una volontà legislativa democraticamente formata e subordinata alla Costituzione: tuttora le maggioranze con le quali vengono approvate le leggi dal parlamento cinese superano quasi sempre il 90% dei voti. Anche i diritti (e le libertà) restano intesi in maniera relativa, non assoluta, dovendosi sempre e comunque confrontare con l’interesse pubblico. Se cioè è vero che in questi anni, grazie a una più libera circolazione di beni, capitali, persone e idee, i cittadini e le imprese cinesi hanno acquisito spazi di autonomia – economica innanzitutto, ma non solo – enormi rispetto al passato, tuttora l’art. 51 della Costituzione cinese recita: “Nell’esercitare le proprie libertà e i propri diritti, i cittadini della Repubblica Popolare Cinese non devono violare l’interesse dello Stato, della società o della collettività, né le libertà e i diritti legittimi di altri cittadini”.

La pienezza dei diritti, la loro certezza, in Cina, è dunque meno completa, meno netta di quanto sia in Europa. Le leggi sono spesso ancora incerte e nella loro interpretazione ed esecuzione le autorità operano con grande flessibilità, in condizioni di supremazia permanente rispetto ai privati e in assenza di contraddittorio: in Cina l’esercizio di libertà, autonomia e diritti è possibile solo nella misura in cui tali condizioni soggettive, pur definite e tutelate dalla legge, godano anche del favore o della tolleranza delle autorità politiche. E ciò vale anche e soprattutto per i soggetti stranieri.

Vi è poi un altro punto da considerare. Mentre il diritto scritto e la propaganda indicano nella legalità il principio normativo cardinale su cui si fonda la società, nella prassi, oltre alla legge (fa, 法), si attribuisce forza normativa anche ad altri sistemi di regole, che possono essere definiti “metagiuridici” e che sono molto più opachi e informali di quello legale. I principali di tali sistemi normativi alternativi sono due: quello delle regole politiche, fondate sul “ruolo guida” del PCC, sulla commistione dei poteri e sulla discrezionalità dei funzionari, e quello delle regole “relazionali” (le cosiddette guanxi 关系, relazioni, su cui tanto spesso gli imprenditori stranieri fanno affidamento), derivanti dal familismo, dal clientelismo, dal localismo, dalla gerarchia sociale.

La convivenza di queste regole metagiuridiche con quelle legali crea una serie di perturbazioni, evidenti soprattutto nella fase di applicazione della legge. Tra esse, le più gravi sono quelle che derivano dalla subordinazione al potere politico della magistratura e delle autorità di controllo, che in Cina non sono indipendenti, ma controllate dall’esecutivo (un caso emblematico è quello dell’autorità antitrust).

*Renzo Cavalieri è professore di Diritto dell’Asia orientale nell’Università di Venezia Ca’ Foscari e avvocato presso lo Studio legale Bonelli Erede. Si occupa da oltre vent’anni degli aspetti giuridici dei rapporti commerciali tra Italia e Cina.