La filiera del riciclo a Pechino

In by Simone

Ogni giorno gli oltre 20 milioni di abitanti di Pechino generano 18mila tonnellate di rifiuti, poco meno di un kg pro capite, percentuale inferiore a quella prodotta dagli abitanti delle economie di più antico sviluppo. Ma il problema è che la spazzatura aumenta sempre più con la crescita della città e dei consumi. Si può agire alla radice, oppure alla fine del ciclo.
Nel 2006, sulle scale di fronte al pensionato studentesco per stranieri dell’università del Popolo di Pechino, ci si imbatteva tutti i giorni e a tutte le ore in un ometto. Non c’era bisogno di dirgli nulla se non “ciao”, magari con un sorriso: accolte con somma felicità, le bottiglie di plastica svuotate dall’elite studentesca globalizzata passavano direttamente nelle sue mani e quindi in un sacco lì vicino.

Nel 2013 – nel frattempo c’erano state le olimpiadi, la metropolitana era arrivata anche all’università, la leadership cinese era cambiata e nuovi studenti erano succeduti a quelli vecchi – lui se ne stava ancora lì, imperterrito, seduto sullo stesso gradino della stessa scala.

Nel palazzo del quartiere di Dongzhimen, tutti i sedici piani sono intasati di immondizia. Farseli a piedi equivale a un viaggio strampalato nell’usa e getta secondo caratteristiche cinesi: sedie, sacchetti dai più vari contenuti, scatole di cartone, un Kalashnikov ad acqua, cavoli lasciati a imputridire, un’automobile a pedali, un albero di Natale finto. C’è materia per un bel servizio fotografico, ma un bel mattino è tutto scomparso. Mai fare domani quello che si può fare oggi, diceva la nonna.

Sfiorando i muri, il grande camion si infila nell’hutong. Uomini e donne, una decina, estraggono rifiuti di tutti i tipi da un deposito che dà sul vicolo e caricano il cassone scoperto fino a quattro metri d’altezza. I materiali impilati sono suddivisi, sminuzzati, piegati con perfezione del tutto artigianale. Quando riparte, il veicolo sembra un lumacone con un enorme guscio bombato.

Tre istantanee per definire la filiera del riciclo a Pechino. Loro si chiamano jian polan de, alla lettera “quelli che raccolgono gli scarti” e sono un esercito, spesso invisibile. Si disperdono per la grande metropoli e raccattano tutto il raccattabile, lo portano negli informali centri di raccolta sparsi un po’ ovunque e poi, dopo la differenziazione, la “merce” è spedita via. Sì, ma dove?

Nel 2011 uscì “Pechino assediata dai rifiuti” un documentario del fotografo Wang Julian. Oggi lui dice di averlo fatto “perché gli andava”, ma ai tempi creò scalpore, tanto che fu visto perfino dall’allora premier Wen Jiabao. Il fotografo/regista si era posto una domanda semplice: dove finiscono i rifiuti? Seguì quindi il carretto di un raccoglitore e finì per percorrere tutta la filiera, in un minuzioso lavoro di indagine che durò dal 2008 al 2011 e che gli fece percorrere 17mila chilometri all’interno della capitale.

Scoprì così l’incredibile realtà sia ecologica sia umana delle discariche che circondano Pechino. Erano circa cinquecento, lì finivano i rifiuti raccolti dai jian polan; spesso si trovavano a pochi metri da zone residenziali o da campi coltivati. Erano quasi tutte illegali o, come si usa dire, “informali”.
Nel documentario, si vedono pecore che brucano tranquillamente tra i rifiuti, umani che percorrono montagne di spazzatura a caccia di materiali recuperabili e liquame che fuoriesce dalle discariche, che rientra nel ciclo naturale e che Wang, da buon fotografo, rende quasi bello. È il percolato, che avvelena il suolo e le acque. Un problema non solo per la capitale, ma per tutto il Paese. A Hong Kong, di recente, riso proveniente dalla Cina continentale si è rivelato contaminato da cadmio. Si pensa che sia proprio a causa del percolato.

Il problema fondamentale, a Pechino come in molte città della Cina, è che il lavoro informale dei jian polan non basta più a smaltire la quantità di spazzatura prodotta dal Dragone consumista e così, nella capitale, meno del 4 per cento dei rifiuti viene oggi riciclato. Ogni giorno gli oltre 20 milioni di abitanti di Pechino generano 18mila tonnellate di rifiuti, poco meno di un kg pro capite, percentuale inferiore a quella prodotta dagli abitanti delle economie di più antico sviluppo.

Secondo dati della Banca Mondiale, le città del mondo creano infatti circa 1,3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi l’anno, cioè 1,2 kg al giorno pro capite, quasi la metà dei quali nei Paesi Ocse. Tuttavia, si prevede un aumento a 2,2 miliardi di tonnellate entro il 2025 – 1,4 kg a persona – dovuto alla crescita dei rifiuti delle città cinesi che, per quella data, ammonteranno a circa 1,4 miliardi di tonnellate, contro i 520 milioni di oggi.

Un problema globale in prospettiva, ma c’è anche un problema locale oggi. Dopo lo scandalo creato dal documentario di Wang, circa l’ottanta per cento delle discariche illegali attorno a Pechino sono state chiuse. Ora ce ne sono 13 ufficiali, tra cui la più grande dell’Asia. Ma il problema è che la spazzatura aumenta sempre più con la crescita della città e dei consumi. Si può agire alla radice, oppure alla fine del ciclo.

Le autorità puntano in buona parte sulla seconda soluzione, con la costruzione di trecento nuovi inceneritori in tutta la Cina, che dovrebbero entrare in funzione entro il 2015. Ma già s’odono le proteste dei “nimby”, il nuovo ceto medio che compra casa nel compound recintato al sesto anello di Pechino e che scopre improvvisamente di non potere aprire le finestre per via delle tonnellate di spazzatura che vanno in fumo lì accanto. Sono loro la base del consenso per il Partito comunista, non si può tradirli.

Chen Liwen, una attivista della Ong ambientalista Green Beagle, ha dichiarato a una tv australiana che gli uffici di protezione ambientale dei governi locali si rifiutano di rendere noti i dati sull’impatto ambientale dei nuovi inceneritori; ma il “no comment” della nomenklatura oggi non funziona più ed esaspera gli animi. Tra le cause degli oltre centomila “incidenti” che ogni anno scuotono la Cina, le questioni ambientali hanno ormai superato le requisizioni di terre o i conflitti di lavoro.

Si possono fare inceneritori “puliti”, sostiene l’Unido (United Nations Industrial Development Organization), ma costano. Ci vogliono le tecnologie che la Cina per ora non ha, bisogna quindi avere i soldi per comprarle. Il problema si allarga al sistema fiscale e al rapporto tra centro e periferia. Il governo centrale incassa infatti circa metà delle tasse, ma contribuisce ai servizi sul territorio per il 15 per cento circa. Al resto pensano province, contee e municipalità, che quindi spendono molto più di quanto ricavino dal gettito fiscale e sono perennemente indebitate. A oggi, in attesa che si riformi il sistema fiscale, chi deve dunque pagare gli inceneritori “puliti”? Governo o singole autorità locali? La domanda resta aperta.

Torna quindi in auge la soluzione alla radice: una migliore raccolta differenziata. La municipalità di Pechino ha di recente aumentato drasticamente la tassa per lo smaltimento dei rifiuti non domestici, portandola da 25 a 300 yuan per tonnellata (da 3 a 36 euro). Con quei soldi, si dovrebbero pagare aziende specializzate nel waste management e mandare in pensione i jian polan de, con tutti i problemi sociali che comunque provoca l’improvviso smantellamento di un’economia informale senza il paracadute del welfare.

La raccolta differenziata richiede però la collaborazione di tutti e soprattutto spazio: un sacchetto dell’umido qui, un cesto della carta là e così via. Ora, nelle città cinesi, la scala delle abitazioni è ridotta, in alcuni quartieri del centro di Pechino tra i 12 e i 20 metri quadri. Se faccio la raccolta differenziata, esco di casa io. Così, finora i tentativi di imporla sono falliti e così non si crea l’abitudine: di conseguenza, anche i cestini della differenziata presenti in strada fin dai primi anni Duemila sono malinconicamente zeppi di tutto e di più.

Oggi, Wang Julian sostiene che il problema riguarda la società consumista nel suo complesso, fatto evidente “quando si vedono enormi discariche di rifiuti di plastica”, dice al South China Morning Post. “Se si acquista la carne di maiale in un supermercato, per esempio, si usano involucri di plastica, a differenza dei vecchi tempi, quando era avvolta in un giornale”. E come dargli torto. Ma a questo, nella Cina protesa al benessere, non sembra esserci rimedio.

[Scritto per Left; foto credits: upi.com]