La dura vita dei reporter d’inchiesta cinesi

In by Simone

[In collaborazione con AGICHINA24]I giornalisti d’inchiesta cinesi non ce la fanno più: questo, brutalmente, il risultato di una ricerca condotta da Zhang Zhi’an, professore di giornalismo alla Fudan University di Shanghai, e Shen Fei, dottore della Hong Kong City University, dipartimento media e comunicazione.
In un articolo apparso sul Global Times di martedì 14 giugno, Zhu Jialei riporta le preoccupanti cifre emerse dal sondaggio che i due accademici hanno compilato servendosi di un campione molto ampio: 343 giornalisti d’inchiesta cinesi, pari al 95% dei reporter d’assalto della Repubblica Popolare.

Enorme mole di lavoro, paga misera e continue minacce – anche fisiche – contribuiscono a condizioni lavorative tutt’altro che agiate, col risultato che il 13% degli intervistati non pensa di continuare la professione per più di 5 anni, mentre il 40% ha già deciso di abbandonarla. “Il giornalismo d’inchiesta è influente e cruciale per l’opinione pubblica e il paese ha bisogno di una nuova generazione di giornalisti d’inchiesta appassionati e qualificati” ha dichiarato Zhang Zhi’an al quotidiano cinese in lingua inglese, forse ignorando che appena un giorno prima, durante un forum sulla sicurezza alimentare in Cina, un esponente del governo rilasciava dichiarazioni diametralmente opposte.

Si tratta di Mao Qun’an, capo del dipartimento per la pubblicità e i rapporti coi media del Ministero della Salute cinese, che lamentando la frequenza di reportage “falsi o fuorvianti” annunciava l’introduzione di una “lista nera”, un elenco nominale dei giornalisti che, secondo il Ministero, dovrebbe aiutare a “combattere o impedire che media di vari livelli possano inquinare l’ambiente dell’informazione offrendo notizie ingannevoli”. Una simile iniziativa arriva dopo mesi particolarmente stressanti per il Ministero della Sanità, visto il fioccare di scandali alimentari in patria che, solo nell’ultimo mese e mezzo, hanno spaziato dalla carne di maiale colorata e venduta come manzo e carne di pollo colorata chimicamente e venduta come maiale, passando per il singolare episodio delle “angurie esplosive” del Jiangsu alla finta carne di anatra sottovuoto. Comprensibilmente, la novità annunciata da Mao Qun’an ha scatenato le dure reazioni di giornalisti e netizen che, secondo il China Media Project di Hong Kong, giudicano la “lista nera” un provvedimento “inutile, inefficace, irresponsabile ed un abuso di potere del Ministero stesso”.

Anche i giornalisti stranieri in Cina, ma questa non è una novità, sono costretti a lavorare in un ambiente ben lontano dagli standard internazionali di libertà d’informazione: lo ha ribadito il mese scorso un sondaggio del Foreign Correspondents Club of China, dove oltre il 90% ha rilevato un deterioramento delle condizioni di lavoro in Cina mentre il 70% ha dichiarato di aver subito intimidazioni in prima persona. Senza dubbio eventi particolarmente sensibili per il governo cinese, come la recente stagione dei gelsomini, hanno avuto come diretta conseguenza un irrigidimento delle autorità rispetto ai reporter stranieri, ma l’inviata di Al Jazeera in Cina, Melissa Chang, ha spiegato in un post sul blog dell’emittente araba quali accortezze è necessario adottare per svolgere in sicurezza il proprio lavoro.

Meglio alloggiare in hotel molto distanti dal proprio obiettivo, così da depistare le autorità locali e riuscire a fare interviste il mattino presto, prima che gli abitanti locali avvertano la polizia e tutto si complichi. Già, si complichi, perché teoricamente per la legge cinese – come ricorda Melissa Chang – è illegale ostacolare il lavoro di giornalisti stranieri: “Per questo i funzionari locali si sono inventati dei modi creativi per rendere il lavoro della cronaca più difficile o aggirare la regole del governo centrale senza infrangere tecnicamente nessuna legge. Possono ingaggiare dei giovani locali per intimidire la nostra troupe. Ingaggiando gruppi non in uniforme, non c’è prova che il governo sia responsabile di qualsiasi interferenza”.

Un esempio? Stephen McDonel dell’emittente televisiva australiana ABC ha filmato e postato su Youtube il “pacato” confronto tra la sua troupe e il gruppo di uomini dai quali erano seguiti da giorni, un tentativo di dialogo che i “Black Audis” – nomignolo coniato da Melissa Chan facendo il verso alle macchinone con cui sono soliti muoversi – non hanno propriamente apprezzato.

[Pubblicato su AGICHINA24 il 17 giugno 2011]