La Cina trema

In by Simone

Bombe fatte in casa e fatte deflagrare con un timer alle 7:40 di mattina, quando la gente si reca al lavoro. Erano nascoste nelle aiuole lungo il viale di fronte alla sede del Partito comunista a Taiyuan, capoluogo della provincia dello Shanxi. Erano sette. Il bilancio del secondo attentato che colpisce la Cina nel giro di poco più di una settimana è per ora di un morto e otto feriti, di cui uno in condizioni critiche.
Siamo ancora alle notizie essenziali, diffuse quasi subito dalle autorità cinesi, mentre si attende per le prossime ore una interpretazione ufficiale dell’accaduto. Si noti che nessun media ufficiale ha finora parlato di attentato. Fanno impressione le sfere di metallo che compaiono nelle numerose foto circolate su internet e che costituivano il contenuto degli ordigni.

Considerando anche l’ora di punta in cui si sono verificate le esplosioni, danno la sensazione che gli autori di quanto successo a Taiyuan cercassero davvero la strage. Probabilmente, molto più della famiglia uigura di tre persone che a bordo di una jeep, secondo la versione ufficiale, si è lanciata in mezzo alla folla di piazza Tian’anmen, a Pechino, il 28 ottobre, facendo cinque morti – tra cui gli autori – e quaranta feriti. Sono due attentati diversi tra loro, anche se li accomuna una certa matrice artigianale: un’auto carica di materiale infiammabile – ma non un’autobomba – prima; ordigni che le autorità cinesi hanno già definito “fatti in casa”, dopo.

Le esplosioni di ieri avvengono a soli tre giorni del terzo plenum del Comitato centrale, l’appuntamento politico più importante dell’anno, in cui le maggiori cariche del Partito – che in Cina coincidono grosso modo con quelle dello Stato – comunicheranno le linee guida delle riforme economiche e sociali che dovrebbero cambiare il volto della Cina.

Durante il terzo plenum del 1978, Deng Xiaoping inaugurò la lunga stagione delle “riforme e aperture” che incanalò la Cina sulla via del mercato globale. Sempre in un terzo plenum, quello del 1993, Zhu Rongji sancì quanto fatto da Deng introducendo l’idea di una “economia di mercato socialista”. In quello del prossimo fine settimana, l’accoppiata Xi Jinping (presidente) e Li Keqiang (premier) dovrebbe spostare il baricentro dell’economia cinese dallo Stato al mercato, liberalizzare cioè parecchi settori e ridurre il peso delle grandi imprese pubbliche nell’equilibrio del sistema.

Il punto, come ha più volte sottolineato la leadership attuale, è di rendere lo sviluppo cinese più sostenibile. Oggi, dopo trent’anni di crescita accelerata, il “modello Deng” sembra giunto al capolinea perché produce una cattiva allocazione delle risorse e si traduce in eccessi produttivi da parte delle industrie sussidiate dallo Stato. Di fronte alla contrazione del mercato globale e al dissesto ambientale provocato da un apparato industriale “vecchio”, la Cina deve compiere una grande transizione dalla quantità alla qualità: meno paccottiglia e più tecnologia, innovazione, intelligenza incorporate nelle merci che produce ed esporta nel mondo.

La grande transizione è però anche sociale, perché dovrebbe dare nuove opportunità, sia di investimento dei propri risparmi sia di lavoro, ai cinesi, sempre meno “massa” di forza lavoro a basso costo e sempre più ceto medio a caccia di consumi diversificati. E proprio per coinvolgere nel “grande sogno cinese” (slogan coniato proprio da Xi Jinping) chi è rimasto indietro, si sta cercando di fondare anche un abbozzo di welfare, con l’allargamento del sistema sanitario e di quello pensionistico. È nell’aria anche la riforma dell’hukou, il sistema di residenza obbligatoria che dà diritti ai cinesi solo nel proprio luogo di nascita, facendo di oltre duecento milioni di migranti una “popolazione fluttuante”, cittadini di serie B, quando si trasferiscono nelle grandi città.

La grande trasformazione mette però a rischio le posizioni di rendita che si sono create, nel corso degli anni, all’interno delle grandi imprese di Stato e nei settori gonfiati dagli squilbri del sistema (come quello immobiliare). Di conseguenza, il cambiamento economico-sociale diventa anche scontro politico all’interno del Partito comunista e, fin dal suo insediamento un anno fa, la nuova leadership ha cominciato una grande campagna anticorruzione che, nelle parole di Xi, “colpirà sia le tigri sia le mosche”: sia i grandi padrini che ritagliano il proprio potere al crocevia tra grandi conglomerati pubblici, Partito e Stato; sia i piccoli funzionari che, a livello locale, si arricchiscono a spese dei cittadini (spesso con l’espropriazione di terreni ai contadini).

Sono queste forze trasversali e ramificate – ora sotto attacco politico – che hanno tutto l’interesse a far apparire l’attuale leadership debole, incapace di gestire l’ordine pubblico, lontana dal Paese reale. E colpisce che le bombe di ieri abbiano voluto colpire proprio il Partito, quasi a voler sottolineare un odio diffuso nei confronti della “mafia comunista” – secondo l’espressione di un utente che sul social network Weibo plaudiva ieri all’attentato – e a rimarcare d’altra parte la necessità di irrigidire l’apparato dello Stato, invece di riformarlo. Questo, a prescindere dal fatto che gli attentatori materiali siano separatisti uiguri o, magari, qualche disperato rimasto indietro nella lunga marcia verso “il grande sogno cinese”.

[Scritto per Lettera43; foto credits: cdt.com]