Indipendenti o ribelli? La Cina e il cinema indie #1

In by Gabriele Battaglia

China Files torna su uno dei temi che gli sta più a cuore: il cinema indipendente cinese. Un lungo articolo – che pubblicheremo in tre parti – ne ripercorre la storia e le sfide. In questa prima parte la nascita, le prime sperimentazioni e la censura. Cosa significa e cosa ha significato negli anni essere un regista indipendente?
La nascita
Il cinema Indie Cinese nasce anche nella Repubblica Popolare Cinese come nel resto del mondo sul finire degli anni Ottanta; ma con ben altre dinamiche.  Infatti, il percorso formativo a cui gli aspiranti registi avevano potuto partecipare fino a quel momento, era più ridotto nel tempo rispetto a quello che in Occidente si stava vivendo: in altre parole, le scuole di cinema avevano ripreso la loro attività da poco più di una decina d’anni, a seguito di quella che venne chiamata apertura ad opera di Deng Xiaoping. Di conseguenza, in quel momento, nella storia e nell’immaginario di questi esordienti mancavano esempi stimolanti che andassero al di là di quel circa cinquantennio di cinema di propaganda omogeneizzato che la Cina si era fino a quel momento sorbita. Inoltre, per quanto infatti il digitale sia arrivato anche in questa parte di Oriente, la velocità di diffusione e i tempi hanno avuto degli sviluppi propri filtrati dal sistema economico e sociale: basti pensare al fatto che il mercato delle videocassette, in Cina, non si è mai veramente diffuso nel modo in cui noi lo conosciamo. Questo rilancio ritardato ha ancora oggi visibili conseguenze sulla qualità tecnica media della produzione a basso budget, e chiaramente si fa maggiormente sentire sulle opere degli esordienti.

Pertanto quando gli artisti hanno iniziato ad accorgersi che esisteva un cinema realizzabile al di fuori delle linee ufficiali di mercato, i componenti di questa forza operativa risultarono particolarmente eterogenei: c’erano certo coloro che approdavano al video come scelta primaria, perché la loro aspirazione era quella di raccontare storie tramite l’immagine in movimento. Ma c’erano anche coloro che vi confluirono per cercare una forma espressiva più libera di quelle classiche, già ampiamente sorvegliate dal Governo. Il controllo dei media, anche in seguito alla cosiddetta apertura, non ha mai smesso di esistere seppure si sia modificato nel tempo. Ciò ha reso la vita difficile alla letteratura, alla pittura e a tutti quegli agglomerati di artisti tipici dell’aerea di Pechino che producevano arte in varie forme; ancora oggi esistono, sebbene si spostino di continuo un po’ come comunità nomadi, e sono i “villaggi” artistici (come Songzhuan o il 798). Un esempio di artista che ha iniziato la sua esperienza filmica più come una ricerca artistica sperimentale perché in effetti nasce come pittore, è Hu Jie, uno tra i documentaristi cinesi che più tra tutti si è mosso nel panorama indipendente: il suo primo lavoro documentario infatti risale al 1995 quando ha voluto documentare, guarda caso, lo sgombero in atto nel villaggio artistico di Yuanming, dove risiedeva in quanto pittore. Da quel giorno fino ad oggi, l’immagine in movimento ha rappresentato per lui la forma principe di documentazione del nascosto e dell’intrattabile per i media ufficiali. Per alcuni, egli è considerato il primo documentarista storico cinese.

A causa di questa caratteristica di esclusione, di lateralità, l’accezione di “indipendenza” in Cina si è spesso legata ad un concetto di ribellione. Tutta la prima produzione filmica di cineasti che ad oggi hanno ben poco da spartire con l’indipendente, è stata in principio condannata perché trattava argomenti che non sarebbero mai stati ammessi nelle altre arti; invece, sfuggivano in un qualche modo se raccontati in video, e molto spesso le condanne di queste opere sono arrivate a posteriori, quando il film cioè era già bello che affermato. Quasi banalmente, si vuole citare l’esempio di Zhang Yimou: il regista non ottenne certo un facile consenso censorio ai suoi primi film (Sorgo Rosso, 1987; Judou, 1989; Lanterne rosse, 1992; La storia di Qiu Ju, 1992; e non ultimo Vivere!, 1994). Tuttavia, ad oggi è l’emblema di una Cina ricca e di un cinema da grande schermo, grande platea e grande budget: non a caso, suo è il film più costoso della storia della produzione cinese, I fiori della guerra (2011). Quanto è rimasto del regista esordiente nel Zhang Yimou di oggi? …questa è un’altra storia.

Se sei indipendente allora sei ribelle
Tornando a noi, il binomio univoco indipendente-ribelle tende a non essere più efficace per la situazione attuale: oggi alle caratteristiche della produzione indipendente si è aggiunta la sperimentazione, la complessità narrativa, la volontà di proporre tematiche e generi non commerciali o magari, di temi diffusi offrire visioni meno commerciali. Da un rapido sguardo, non pare così impossibile sistemarsi nell’indipendente: la produzione cinese, che nell’ultimo biennio in particolare pare voltarsi verso i grandi mercati esteri sia per attrarre fondi che per fornire pellicole di successo, non è così varia. I film wuxia (arti marziali) con aggiunta di effetti speciali la fanno ancora da padrone, uniti all’invasione degli effetti speciali importati da Hollywood e contornati da tutta una serie di produzioni brainless che hanno un po’ a che fare con i cine-panettoni italiani come pure con le commedie romantiche da cascata di miele (a tal proposito cito per dovere di cronaca il fenomeno del box office 2012, Lost in Thailand di Xu Zheng: 200 milioni di dollari). Di conseguenza, se un regista non vuole parlare di queste quattro cose che sono pure quelle che certamente piacciono al Governo, neanche a farlo apposta, è un indipendente.

Per fortuna quindi, esiste questo tipo di produzione; per fortuna cioè, ci sono registi che portano avanti quella che in futuro verrà ricordata come la storia del Cinema Cinese di questi anni (altroché le commedie con i cuoricini): tra i giovani cito Ying Liang e Diao Yinan, tra i “vecchi” della “Sesta Generazione” Lou Ye e Jia Zhangke, sebbene questi ultimi sia meglio considerarli in termini di indipendenza narrativa più che produttiva. C’è qualcosa in comune con l’indie italiano, dove i creativi si trovano ad essere schiavi dell’indipendenza nel momento in cui non posseggono i mezzi sufficienti per poter realizzare la forma ideale dei loro progetti: se lavori in ristrettezza, allora sei indie, fratello. Ecco, come non citare Lorenzo Bianchini, un padrone di dimestichezza indipendente, quando evidenzia come non avere i soldi necessari ti porta ad essere “dipendente dall’indipendenza”.

Tuttavia, sappiamo bene che ciò contro cui si scontrano i filmmaker indipendenti cinesi è molto più di una situazione di ardua produttività. Non si tratta soltanto di essere fuori dalle linee produttive, di fare film con pochi spicci ed inventarsi come portare a termine il lavoro anche nelle scarsità: quel che c’è in Cina e che per nostra futura in Italia si percepisce lateralmente, è la mancanza di libertà, l’impossibilità di essere padroni delle proprie idee. C’è chi decide cosa si può dire e cosa non si può dire, c’è chi decide se il tuo film vedrà la luce o se tu, come filmmaker, avrai mai un futuro. Shen Yongping stava lavorando su un documentario di indagine storica e civica: 100 years of Constitutional Governance, dalla fine della dinastia Qing nel 1911 (proclamazione della Repubblica) fino ad oggi. Intimato di interrompere questo così definito “business illegale”, Sheng Yongping si è intestardito nella sua battaglia: ha finito il film, ma il 4 novembre si è trovato ad affrontare un processo per il quale rischia 5 anni di prigione. Chiaro, era “libero” di decidere quel che fare e il suo esempio è uno di quelli abbastanza estremi.

Volendone citare uno ancora più estremo, ovvero, la storia di un perseguitato, parliamo di Du Bin: il suo fortissimo documentario sulle torture del campo di rieducazione di Masanjia, Above the Ghosts’ Heads: The Women of Masanjia Labor Camp gli è valso un mese di detenzione nell’estate del 2013.  I documentari sono oggi tra le produzioni più “delicate” in termini di censura. Prendiamo Ying Liang, uno tra i registi più brillanti e meno capiti in patria: vince un premio prestigioso a Locarno nel 2012 per un film che viene, immediatamente dopo l’esordio, censurato in Cina, When the night falls (2012). A seguire, l’autore viene intimato di non rientrare in Cina, la sua famiglia e la famiglia della moglie minacciate. Oggi vive ad Hong Kong. Il film citato è un documentario, ma la sua opera passa anche da titoli di fiction, come gli indimenticabili Taking Father Home (2005), The Other Half (2006) e Good Cats (2008).

[Scritto per TaxiDriver]

*Rita Andreetti nasce a Ferrara nel 1982. Si è occupa attivamente di cinema indipendente in Italia anche tramite il portale Indipendentidalcinema.it. Scrive per la rivista Taxidrivers.it e per FareFilm.it di cinema asiatico e cura un blog per Vanity Fair in cui racconta della sua esperienza: cineserie.vanityfair.it. Sogna un giorno di poter parlare cinese correntemente e distribuire film italiani a questo immenso pubblico.