India – Lavoro informale: il trucco del boom indiano

In by Simone

Il "lavoro informale" in India è un fenomeno dalle dimensioni impressionanti: il 90 per cento della popolazione attiva produce senza diritti e tutele garantite. Ne abbiamo parlato con Elisabetta Basile, professoressa di economia alla Sapienza, nell’ultimo speciale Asia del manifesto Jobs Asia, gratis per iPad e iPhone.
Il mira­colo eco­no­mico indiano, come car­tel­lone pub­bli­ci­ta­rio della cre­scita western friendly del gigante asia­tico, si sta sbia­dendo sotto i colpi della crisi glo­bale. I ritmi for­sen­nati di incre­mento a due cifre del Pil hanno lasciato lo spa­zio, negli ultimi anni, a stime ben più mode­ste; alla spe­ranza di supe­rare la soglia del 5 per cento e con­ti­nuare ad ali­men­tare il "sogno indiano" nelle gene­ra­zioni future.

Il ral­len­ta­mento, per un paese popo­lato da quasi 1,3 miliardi di per­sone e in cre­scita demo­gra­fica costante, è il prin­ci­pale grat­ta­capo delle isti­tu­zioni indiane, ben con­sce che in assenza di una svolta inclu­siva nelle poli­ti­che eco­no­mi­che, la pen­tola a pres­sione del sub­con­ti­nente rischia di sfia­tare con vio­lenza, sfo­garsi in quei movi­menti sepa­ra­ti­sti, set­tari e ter­ro­ri­stici che offrono all’India degli ultimi un’apparente via d’uscita dallo stato di indi­genza perpetuo.

La solu­zione avan­zata dai tec­nici e acca­de­mici vicini al governo si muove lungo le impo­si­zioni del mer­cato, pre­di­cando quella "fles­si­bi­lità del mer­cato del lavoro" che vuole far coin­ci­dere la dimi­nu­zione delle tutele e dei diritti con l’aumento al con­ta­gio vir­tuoso della ricchezza.

Ma l’India, die­tro la patina hi-tech, è soste­nuta da un eser­cito di lavo­ra­tori invi­si­bili di dimen­sioni impres­sio­nanti: sono le truppe del "lavoro infor­male", un feno­meno che Eli­sa­betta Basile, pro­fes­so­ressa di eco­no­mia appli­cata presso La Sapienza di Roma, ha svi­sce­rato nel suo ultimo sag­gio acca­de­mico Capi­ta­list Deve­lo­p­ment in India’s Infor­mal Eco­nomy (Rou­tledge, giu­gno 2013).

Pro­fes­so­ressa Basile, cosa si intende per "lavoro informale"?

Il ter­mine "lavoro infor­male" indica il rap­porto di impiego in cui i lavo­ra­tori sono occu­pati in una atti­vità pro­dut­tiva, senza che ven­gano assi­cu­rati loro diritti e tutele. In India il feno­meno ha dimen­sioni gigan­te­sche, si cal­cola che i lavo­ra­tori infor­mali siano il 90 per cento della popo­la­zione attiva, grosso modo 400 milioni di per­sone. Senza ferie, senza riposo set­ti­ma­nale, pagati spesso a cot­timo e senza sicu­rezza sul – e del – lavoro, ogni anno pro­du­cono il 50 per cento del Pil indiano.

Qual­cosa di simile a ciò che in Ita­lia chia­miamo “lavoro nero”, anche se nel con­te­sto indiano il ter­mine indica il lavoro “non regi­strato” piut­to­sto che il lavoro nasco­sto. Non c’è nulla di clan­de­stino nel lavoro infor­male indiano che è siste­ma­ti­ca­mente sti­mato e aggiunto alla quota di lavoro for­male. Senza que­sto tipo di lavoro, l’India non potrebbe mai van­tare i tassi di cre­scita ai quali ci ha abituati.

Chi sono i lavo­ra­tori informali?

Fac­ciamo prima a dire chi sono quelli for­mali: lavo­ra­tori della scuola, ammi­ni­stra­zioni locali, eser­cito, alcuni pezzi di sanità non ester­na­liz­zati, pro­fes­sori uni­ver­si­tari e qual­che grande impresa. Que­sti lavo­ra­tori costi­tui­scono la cosid­detta "cit­ta­della" dell’occupazione in India: un mani­polo di lavo­ra­tori spe­cia­liz­zati, che gode di con­tratti e tutele, asser­ra­gliato nella pro­pria isola di benes­sere. Man mano che si scende lungo la scala pro­dut­tiva, il resto dei lavo­ra­tori è infor­male e gua­da­gna un sala­rio che per­mette un’esistenza che spesso supera di poco la soglia di povertà, che secondo i – discu­ti­bili – stan­dard inter­na­zio­nali è fis­sata intorno a 1,25 dol­lari spesi al giorno. E stiamo par­lando delle realtà urbane, che in India com­pren­dono poco più del 20 per cento della popo­la­zione totale. Il resto dei lavo­ra­tori, che vivono nelle cam­pa­gne, è infor­male quasi al 100 per cento.

Si tratta di un feno­meno nuovo, una con­se­guenza della globalizzazione?

Asso­lu­ta­mente no. Per motivi diversi, l’India non ha mai rag­giunto lo sta­dio della "for­ma­liz­za­zione" dell’attività pro­dut­tiva che i paesi di prima indu­stria­liz­za­zione hanno rag­giunto nella fase della matu­rità capi­ta­li­stica. Uno dei fat­tori impor­tanti è il basso livello di alfa­be­tiz­za­zione delle forze di lavoro. Qui, lo stesso Jawa­har­lal Nehru, primo mini­stro dell’India indi­pen­dente nel 1947, ha gran­dis­sime respon­sa­bi­lità. Il pro­blema dei lavo­ra­tori all’epoca era il basso livello alfa­be­tiz­za­zione e la scelta di Nehru fu rea­liz­zare un sistema uni­ver­si­ta­rio d’élite sul modello anglo­sas­sone, tra­la­sciando l’istruzione primaria.

Ancora fino a pochi anni fa, solo una donna su tre, nelle cam­pa­gne, sapeva scri­vere il pro­prio nome. Solo nel pas­sato recente il governo ha ini­ziato a pro­muo­vere l’alfabetizzazione delle cam­pa­gne, uno degli stru­menti che assieme alla lotta alla povertà e ai sus­sidi dovrebbe gui­dare l’India verso lo "svi­luppo inclu­sivo". Ma, a leg­gere i docu­menti uffi­ciali, l’idea di "svi­luppo inclu­sivo" por­tata avanti dal governo indiano non con­tiene tra le prio­rità la garan­zia dei diritti e delle tutele per i lavo­ra­tori, men­tre pro­pone l’ulteriore libe­ra­liz­za­zione dell’economia.

Come si spiega una così alta per­cen­tuale di lavoro infor­male nel paese?

Con ordini di gran­dezza diversi, ma la ragione di con­durre un’attività pro­dut­tiva non regi­strata in India e in Europa è iden­tica: non pagare le tasse ed evi­tare i con­trolli sui costi sociali della pro­du­zione (sfrut­ta­mento dei lavo­ra­tori e dell’ambiente). Ma esi­ste anche un’altra ragione più pra­tica e pro­fonda, evi­dente in par­ti­co­lare nelle cam­pa­gne: il lavoro infor­male pro­duce le merci che ven­gono con­su­mate, usate e man­giate dai lavo­ra­tori infor­mali, che non dispon­gono di mezzi eco­no­mici tali da poter acqui­stare nel mer­cato for­male.

In India oggi esi­stono due eco­no­mie paral­lele: quella for­male, abi­tata dalle imprese ‘for­mali’ e popo­lata da una parte con­si­stente della classe medio-alta – sti­mata intorno a 300 milioni di per­sone – che gode di salari più alti e si rifor­ni­sce pre­va­len­te­mente di beni e ser­vizi pro­dotti in atti­vità regi­strate (elet­tro­do­me­stici nuovi, cen­tri com­mer­ciali, hotel e risto­ranti di lusso…); e quella infor­male, la realtà di tutti giorni nelle cam­pa­gne e in gran parte dei con­te­sti urbani, fatta di nego­zietti, mer­cati all’aperto e merci di seconda (terza e quarta…) mano.

C’è però un con­ti­nuum fra le due eco­no­mie, poi­ché anche l’economia for­male impiega lavo­ra­tori infor­mali nella mani­fat­tura e nei ser­vizi. E que­sto si osserva sia nei "labo­ra­tori del sudore" (swea­tshops) che pro­du­cono merci di qua­lità varia­bile con forte sfrut­ta­mento del lavoro, sia nelle case, dove i lavo­ra­tori dome­stici sono siste­ma­ti­ca­mente senza diritti e senza tutela.

Quindi la pro­ba­bi­lità di acqui­stare anche qui in Europa merci made in India pro­dotte da lavo­ra­tori infor­mali, davanti a que­sti numeri, è molto alta.

I miei stu­denti spesso mi chie­dono: "Cosa può fare il con­su­ma­tore occi­den­tale per opporsi allo sfrut­ta­mento dei lavo­ra­tori infor­mali nei paesi poveri?"

La rispo­sta data dall’Occidente è stata intro­durre degli stan­dard di pro­du­zione e orga­niz­za­zione in modo tale da obbli­gare le imprese a met­tersi in regola e rispet­tare le indi­ca­zioni dell’Organizzazione Inter­na­zio­nale del Lavoro sui diritti dei lavo­ra­tori. In India che suc­cede? Nel set­tore del tes­sile, il più discusso in India a fronte di una tra­di­zione seco­lare, gli impren­di­tori che devono ade­guarsi fanno due cose: o fal­si­fi­cano tutti i docu­menti o, se rie­scono, decen­tra­liz­zano la pro­du­zione in Ban­gla­desh o nel Sud-est asia­tico, ser­ven­dosi di un inter­me­dia­rio.

La figura dell’intermediario è cen­trale nella pro­du­zione made in India e nel lavoro infor­male. Pren­diamo, ad esem­pio, una nota mul­ti­na­zio­nale che vende in tutto il mondo tap­peti fab­bri­cati in India "senza il lavoro dei bam­bini". È un’affermazione che non può fare, per­ché non lo pos­sono sapere.

La mul­ti­na­zio­nale emette l’ordine di acqui­sto a un inter­me­dia­rio, indi­cando quanti tap­peti vuole, colore e misure; l’intermediario, a sua volta, tra­smette l’ordine a un altro inter­me­dia­rio, e poi un altro e un altro ancora, fino ad arri­vare effet­ti­va­mente a chi pro­duce i tap­peti, una fami­glia, met­tiamo, del Raja­sthan che lavora da casa impie­gando donne, nonni, bam­bini in orari di lavoro sfian­canti, rice­vendo una retri­bu­zione a cot­timo.
Chi mate­rial­mente pro­duce la merce, quella fami­glia, non solo è sco­no­sciuta alla mul­ti­na­zio­nale, ma anche ai diversi livelli di inter­me­diari che, sfrut­tando la mano­do­pera, gene­rano il pro­fitto. L’organizzazione del lavoro, in India, fun­ziona così, e lo stesso discorso vale per i call-center, i ser­vizi e la mani­fat­tura in gene­rale, in par­ti­co­lare quando le tec­ni­che impie­gate sono sem­plici. Salvo pochis­sime ecce­zioni, l’etichetta made in India indica che quel pro­dotto arriva da un’attività lavo­ra­tiva informale.

Siamo di fronte a una classe media cre­sciuta gra­zie all’economia informale.

L’economia infor­male, secondo quest’organizzazione del lavoro, genera dei pro­fitti altis­simi. E gli effetti di que­sto benes­sere non inclu­sivo sono evi­denti nella forte cre­scita della disu­gua­glianza. Vent’anni fa i grandi alber­ghi non erano fre­quen­tati dagli indiani. Oggi gli hotel di lusso come quelli delle catene Obe­roi o Taj sono pieni di clienti locali, che hanno sosti­tuito gli euro­pei, i quali non pos­sono hanno ormai una ridotta capa­cità di spesa. Stesso discorso per i risto­ranti di lusso.
L’economia infor­male, in defi­ni­tiva, è il vero trucco del boom eco­no­mico indiano che pog­gia su alti livelli di sfrut­ta­mento dei lavo­ra­tori. Senza la rego­la­riz­za­zione del mondo del lavoro, senza la tutela dei diritti dei lavo­ra­tori, per l’India lo svi­luppo inclu­sivo rimarrà un’illusione.

[Scritto per Jobs Asia, lo speciale sul lavoro in Asia del manifesto; foto credit: manifesto.it]