UPDATE India – Eli e Tomaso liberi!

In by Gabriele Battaglia

Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni erano condannati all’ergastolo per l’omicidio del loro amico Francesco Montis. Dopo cinque anni di carcere a Varanasi, oggi a sorpresa la Corte suprema indiana ha ribaltato le sentenze di primo e secondo grado, disponendone la messa in libertà immediata. Qui una nostra intervista dal carcere di qualche mese fa. UPDATE
20 gennio 2015

Questa mattina la Corte suprema indiana ha accolto il ricorso avanzato dai legali di Bruno e Boncompagni. Secondo i giudici le precedenti sentenze di colpevolezza vanno ora «messe da parte», Tomaso ed Elisabetta saranno presto rimessi in libertà.

Appresa la notizia, Marina Maurizio – madre di Tomaso, al momento in Italia – ha dichiarato all’agenzia Ansa di provare «grande gioia», descrivendo l’ultima sentenza della Corte suprema come la dimostrazione del «funzionamento del sistema giudiziario indiano».

In queste ore l’Ambasciata d’Italia in India sta lavorando per velocizzare le pratiche burocratiche necessarie al rimpatrio di Tomaso ed Elisabetta. Sempre secondo Ansa, il processo non dovrebbe necessitare di più di 24 ore.

Riproponiamo qui sotto l’intervista a Tomaso ed Elisabetta realizzata qualche mese fa dal carcere di Varanasi, già pubblicata sul quotidiano il manifesto. Buona lettura.

La storia

Il can­cello della District Jail di Vara­nasi è pre­si­diato da una man­ciata di poli­ziotti. Quello che sem­bra essere il «capo», cor­po­ra­tura spessa e denti deva­stati dalle foglie di pan, appena rico­no­sce Marina si distende in un sor­riso da orec­chio a orec­chio. «Oooh, Aun­tie, sei arri­vata!».

La madre di Tomaso Bruno, assieme a Eli­sa­betta Bon­com­pa­gni in car­cere da quasi cin­que anni, ormai la cono­scono tutti: è la mamma dell’«angreji», india­niz­za­zione de «l’inglese», e negli anni ha svi­lup­pato una rou­tine della cor­ru­zione messa in atto con una natu­ra­lezza ammirevole.

Si avvi­cina al «capo» tenendo pie­gata nella mano una ban­co­nota da 100 rupie (meno di un euro e mezzo). La tariffa per sal­tare una parte della fila ai con­trolli è cin­quanta rupie a per­sona, incas­sate con le stesse movenze con cui le cen­ti­naia di spac­cia­tori dei ghat di Vara­nasi, gli sca­lini che scen­dono nel Gange, dispen­sano dro­ghe di vario genere ai turi­sti occi­den­tali che a frotte si river­sano nella città più sacra del Paese.

Le cara­melle com­prate al nego­zietto dall’altro lato della strada andranno invece ad oliare i con­trolli di sicu­rezza al di là del can­cello: dol­cetti per evi­tare, ogni volta, di setac­ciare a fondo due borse piene di ver­dura, gior­nali, libri e siga­rette. «So che è sba­gliato, ma qui in India si fa così. E se con due euro posso vedere mezz’ora in più mio figlio, allora lo fac­cio».

Maschi e fem­mine, in code sepa­rate, pas­sano i con­trolli nel giro di qua­ranta minuti, rimessi in fila a forza di urla e basto­nate da forze dell’ordine che ridono, minac­ciano, impon­gono un pre­ca­rio con­cetto di ordine ser­ven­dosi del mede­simo urlo ono­ma­to­peico — «Hat! Hat!» — usato dai pastori del sub­con­ti­nente per ricom­porre il gregge.

Tomaso ed Eli­sa­betta ci aspet­tano seduti a terra sotto una veranda affac­ciata sui cura­tis­simi giar­dini del car­cere. Sono accu­sati dell’omicidio di Fran­ce­sco Mon­tis, morto nella camera della gue­sthouse dove i tre turi­sti sog­gior­na­vano nel feb­braio del 2010.

Tra post mor­tem appros­si­ma­tivi e un impianto accu­sa­to­rio basato esclu­si­va­mente sul sospetto di un ménage a trois finito male – due uomini e una donna occi­den­tale in una stanza d’albergo, in India, por­tano ancora oggi alla for­mu­la­zione di sil­lo­gi­smi pru­ri­gi­nosi – i due ragazzi aspet­tano da oltre un anno che la Corte Suprema valuti l’istanza di ricorso avan­zata dalla difesa. Dopo decine di rin­vii, mar­tedì 11 novem­bre i giu­dici potreb­bero final­mente pro­nun­ciarsi sull’ultima sen­tenza datata set­tem­bre 2013. Col­pe­voli, in secondo grado di giu­di­zio, di omi­ci­dio volon­ta­rio. Pena: ergastolo.

Tomaso è entrato in car­cere a 27 anni e, escluso un ser­vi­zio rea­liz­zato di nasco­sto dalle Iene qual­che anno fa, non esi­ste una sua foto recente. Ora di anni ne ha 31, i dila­ta­tori ai lobi e il cap­pel­lino sono rima­sti al loro posto, ma si è fatto cre­scere i baffi. Sor­ride, mi offre una siga­retta, e ini­zia a raccontare.

«La prima cosa che dovevo impa­rare per stare qui è stata la lin­gua, non potevo sem­pre rom­pere i coglioni a tutti per­ché mi spie­gas­sero cosa suc­ce­deva, cosa dice­vano. Ora parlo una cosa che non so bene se è hindi o bho­j­puri (la lin­gua locale dell’Uttar Pra­desh orien­tale, ndr), ma mi capi­scono e capi­sco tutto. Guardo anche i film».

Nella caserma che con­di­vide con altri 150 dete­nuti (tutto il car­cere ne con­tiene 1700, il dop­pio della capienza uffi­ciale) ci sono due tele­vi­sori che scan­di­scono l’intrattenimento col­let­tivo. Gli appun­ta­menti impre­scin­di­bili sono i film del wee­kend, esclu­si­va­mente in hindi, con inne­sti di apprez­za­tis­simi rea­lity show (in par­ti­co­lare una sorta di «Indian Idol») e dei match di cric­ket, che Tomaso – inte­ri­sta – ha impa­rato ad apprez­zare e giocare.

La con­vi­venza in una came­rata da 150 per­sone, orga­niz­zata a file di gia­ci­gli con len­zuola e coperte impi­late a far da mate­rasso, non è stata par­ti­co­lar­mente dif­fi­col­tosa. Tomaso ed Eli si erano cono­sciuti a Lon­dra: «Siamo due per­sone molto adat­ta­bili. A Lon­dra Eli aveva vis­suto in uno squat e io li fre­quen­tavo. Era­vamo abi­tuati a vivere nella con­fu­sione» dice Tomaso ridi­men­sio­nando l’idea ter­ri­fi­cante che, chi non ci è mai stato, ha di un car­cere in India.

Le caserme, dai rac­conti dei due ragazzi, ospi­tano una micro­so­cietà basata su un mutuo rispetto effi­cace ma di fac­ciata. Per la District Jail pas­sano i sen­ten­ziati a meno di dieci anni – Tom e Eli sono un’eccezione con­cor­data col diret­tore del car­cere per faci­li­tare le visite di Marina – e, a spanne, si riga dritto e prima o poi si esce.

«Sono entrato qui senza niente. Il giorno prima ero un turi­sta, quello dopo un dete­nuto. Non abbiamo nem­meno avuto il tempo di meta­bo­liz­zare la morte di Fran­ce­sco. Ero ter­ro­riz­zato, arrivo qui e vedo due che si menano per terra. Quello che le pren­deva poco dopo mi chiama e io penso cazzo, adesso tocca a me. Invece mi dice che tutti sanno chi sono, ave­vano letto i gior­nali, e che non mi devo pre­oc­cu­pare, per loro sarò sem­pre un ospite. Era il capo della caserma».

Col tempo l’«angreji» Tomaso è diven­tato per tutti il «boss». Lo chia­mano così, sanno che, nono­stante la curio­sità eso­tica che suscita, non devono distur­barlo quando ha in mano la Gaz­zetta o quando legge una delle decine di libri chie­sti a Marina in que­sti anni: Ter­zani, Corona, Paras­si­notto, Don Win­slow, Ken Fol­let ed Edward Bun­ker, fon­da­men­tale per i due, un manuale non per soprav­vi­vere, ma per vivere in car­cere. Come dice Eli­sa­betta: «Anche in car­cere c’è vita».

È vita indiana: si man­gia con le mani, la carta igie­nica non esi­ste, si affron­tano i dik­tat della tra­di­zione, come non lavarsi col sapone o tagliarsi i capelli il gio­vedì e il sabato. Si aspetta da cin­que anni ma non ci si dimen­tica di vivere e di pro­vare a capire que­sto Paese, impo­sto per via legale a Tomaso ed Eli­sa­betta come alle loro fami­glie. «Sono pas­sati cin­que anni» spiega Marina, 61 anni, india­niz­zata nei modi e nel vestia­rio dopo anni di spola tra Albenga e Vara­nasi «e se mi fossi rifiu­tata di capire, sareb­bero stati cin­que anni but­tati via».

«Oh, ci vediamo pre­sto allora» mi dice Tomaso ridac­chiando al momento dei saluti. «Fuori»

[Scritto per il manifesto; foto credit: ilmanifesto.info]