In Cina il caffè sta prendendo il posto del tè

In Cina, Economia, Politica e Società by Redazione

Da quando la Cina ha aperto le frontiere con le riforme di Deng Xiaoping nei primi anni ’90, i prodotti occidentali hanno iniziato ad invadere la Terra di Mezzo. Sono arrivati la Coca Cola, il vino, l’olio d’oliva e le prime catene di Fast food. Alcuni di questi prodotti, seppur non sempre graditi al palato asiatico, sono gradualmente divenuti un fatto di costume, ma soprattutto, di affermazione del proprio status sociale, di media o alta borghesia. E negli ultimi anni, la produzione e il consumo di caffè è cresciuta a tal punto da iniziare a contendere il primato del famoso tè cinese.

A rivelarlo è uno studio dell’Università di Leicester. “È uno strumento per dimostrare il proprio status”, afferma la dottoressa Maguire, “sia come classe sociale, sia per caratteristiche soggettive come l’essere moderni, internazionali e alla moda”. I consumi sono in crescita del 16% l’anno, soprattutto tra millennials e business man, un processo certamente influenzato anche dall’avvento di grandi catene come Starbucks, che vengono viste come una rassicurazione sulla qualità del prodotto. “In un mercato pieno di imitazioni”, racconta una giovane donna cinese di 28 anni. “ho bisogno di trovare dei brandaffidabili”.

Se infatti l’Italia, patria dell’Espresso, ha resistito a lungo all’avvento di queste multinazionali del caffè, lo stesso non si può dire per la patria del tè. Mentre la multinazionale americana arriverà in Italia soltanto il prossimo settembre, in Cina gli Starbucks sono ormai oltre 3300 e si prevede che saranno circa 6mila entro il 2022, con una media di 600 nuove rivenditeall’anno, una ogni 15 ore, e con un aumento dei profitti annuale di circa il 54 per cento.

L’impatto del caffè non è solo descrivibile sul piano socio-culturale, di consumi e di distribuzione, ma anche a livello produttivo. La regione dello Yunnan, a sud del Tibet, è sempre stata rinomata per la sua biodiversità e per la produzione di celebri qualità di tètradizionali come il Pu’er, un tè nero fermentato. Oggi la zona raccoglie il 60% del caffè cinese, all’interno di una regione in grado di produrre il 99% dei chicchi del Paese.

Ovviamente il tè è ancora preferito dalla gran parte dei cinesi, che ne consumano otto volte tanto. Tuttavia, qui le piantagioni di caffè sono raddoppiate negli ultimi 7 anni (da 439mila ettari nel 2011 ai 789mila del 2018) e in sinergia col tè stanno generando nuove qualità di arabica e robusta. Questo è dovuto in particolare all’introduzione di varietà estranee all’ecosistema, una questione che ha portato gli agronomi e specialisti del tè, insieme a produttori di caffè e organizzazioni di ricerca come il Coffee Quality Institute, a sfruttare le proprie conoscenze nel campo per rendere le diverse qualità adatte alla crescita e al mercato.

Nell’ultimo secolo sono stati numerosi i tentativi di introdurre il caffè in Cina, ma è stato solo con l’avvento della Nestlé, della Banca Mondiale e dei piani di sviluppo delle Nazioni Unite che, negli anni ’80, migliaia di coltivatori dello Yunnan si sono convinti a introdurre nuove piantagioni. All’estero questo fenomeno è tutt’ora poco conosciuto, nonostante la Cina produca 138mila tonnellate metriche di caffè l’anno, quanto Kenya ed El Salvador combinate. Oggi si producono prevalentemente chicchi di bassa qualità per derivazioni solubili, ma con lo sviluppo della classe media e l’aumento del costo della vita anche le produzioni si stanno gradualmente adeguando a qualità e rendite maggiori.

Circa metà della produzione dello Yunnan è destinata ai mercati esteri, nel 2016 l’export ha raggiunto un valore pari a 280 milioni di dollari ed è in continua crescita, soprattutto grazie ad iniziative come la Nuova Via della Seta, un immenso progetto infrastrutturale per collegare Cina e Europa attraverso il l’Asia centrale e il Medio oriente. Non a caso, il più grandi mercato estero del caffè cinese è oggi l’Ue, trainata dagli acquisti tedeschi. La Cina comunque importa ancora ingenti quantità di caffè, oltre 48mila tonnellate l’anno, e i brand italiani più influenti stanno già beneficiando dalla crescita dei consumi e dal cambio di abitudini e dei gusti cinesi.

di Gianluca Atzori

[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]