In Cina e Asia – Mitsubishi falsifica i dati sulle emissioni di 600mila veicoli

In by Gabriele Battaglia

I titoli della nostra rassegna di oggi:

– Mitsubishi come Volkswagen: falsifica i dati sulle emissioni
– La versione di Jack: il patron di Alibaba vuole un giornale globale che racconti la Cina «correttamente»
– «Comandante in capo» Xi Jinping
– La nuova banca per lo sviluppo asiatico rivela i primi progetti: focus su Asia centrale
– Libertà di stampa: il Giappone fa peggio della Tanzania
Mitsubishi come Volkswagen: falsifica i dati sulle emissioni

La polizia giapponese ha perquisito gli uffici della Mitsubishi Motors a Okazaki, il secondo impianto più grande del paese dopo le rivelazioni sulle falsificazioni riguardo i consumi delle sue auto.
I dati di oltre 600mila veicoli sono stati alterati deliberatamente dagli impiegati dell’azienda. Il governo di Tokyo ha intanto affermato che si tratta di un caso estremamente serio e che ha ordinato all’azienda di fare chiarezza al più presto. Ora Mitsubishi ha una settimana per presentare un rapporto dettagliato a Tokyo.

«Sulla base dei ritrovamenti della polizia e dei resoconti dell’azienda, vogliamo chiarezza sulle inesattezze riscontrate al più presto», ha detto il capo segretario di gabinetto Yoshihide Suga alla stampa. «Gestiremo il caso nel modo più severo possibile in modo da assicurare la sicurezza delle automobili». Per il governo Abe è il secondo scandalo industriale di grandi proporzioni dopo quello di Toshiba dello scorso anno. Questa mattina in borsa, il titolo Mitsubishi ha visto un’ondata di vendite che ne hanno compromesso l’andamento con un crollo del 15 per cento del valore delle azioni. 

La versione di Jack: il patron di Alibaba vuole un giornale globale che racconti la Cina “correttamente”

In un’intervista «esclusiva» per il giornale di cui da poco è diventato proprietario, Jack Ma parla della crescita economica cinese e delle ragioni del suo ingresso nel mondo dei media. Parla di «moderata prosperità» cinese e di indipendenza della stampa di Hong Kong difendendosi dalle accuse che descrivono il suo ingresso nel South China Morning Post un attacco alla libertà di stampa nell’ex colonia britannica.

«Vogliamo rendere il South China Morning Post un giornale globale grazie alla nostra tecnologia e alle nostre risorse», ha spiegato Jack Ma in riferimento alla mole di dati posseduta da Alibaba, gigante dell’e-commerce in Cina. In questo modo, «il Post potrà scrivere di Cina e Asia più accuratamente di altri media e fare da connettore tra Occidente e Oriente». Jack Ma nega le voci secondo cui il suo acquisto del primo giornale in lingua inglese dell’ex colonia britannica sia un ennesimo colpo alla libertà di espressione a Hong Kong.
Willy Lam, ex commentatore del quotidiano ancora a dicembre aveva detto al NYT che l’ingresso di Alibaba nel giornale poteva alimentare «tendenze all’autocensura» su temi sensibili che riguardano la Cina continentale – come ad esempio Tiananmen, di cui il prossimo 4 giugno ricorrerà il 27esimo anniversario. Anche perché come aveva detto tempo fa un dirigente Alibaba: «ciò che fa bene alla Cina, fa bene anche ad Alibaba».

«Comandante in capo» Xi Jinping

Da ieri Xi Jinping è «comandante in capo» del nuovo centro di comando unificato delle forze militari cinesi. I media di stato della Rpc hanno usato il termine non a caso: Xi è infatti impegnato nel consolidare il proprio potere sull’esercito e promuovere una «razionalizzazione» del comparto militare cinese. Il titolo di «commander in chief» usato negli articoli sia della tv pubblica Cctv sia dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, si aggiunge a quelli di presidente, segretario generale del Partito comunista cinese e presidente della Commissione centrale militare.

Negli ultimi mesi, l’Esercito di liberazione popolare, storicamente il braccio armato del Partito comunista cinese, è stato al centro di alcune uscite pubbliche di Xi, che è tornato a chiedere che i militari siano «assolutamente leali» alla dirigenza del Pcc. Dal punto di vista diplomatico e militare il momento è delicato: la Cina è infatti coinvolta da dispute territoriali su più fronti che coinvolgono Giappone, da una parte, Vietnam e Filippine dall’altra e, non da ultimo, gli Stati Uniti. Oltre alle uscite pubbliche, il piano del leader cinese per rafforzare il suo controllo sul comparto militare vede la riduzione del personale di 300mila unità. Il tutto per renderlo «più forte, più efficiente, coraggioso e in grado di vincere guerre».

La nuova banca per lo sviluppo asiatico rivela i primi progetti: focus su Asia centrale

Il Financial Times rivela i primi progetti della Asian Infrastructure and Investment Bank (AIIB), la banca per lo sviluppo asiatico voluta da Pechino. Al top delle priorità del nuovo istituto che ha aperto i battenti lo scorso gennaio, il progetto di ricostituire la «Via della Seta»: la Banca finanzierà infatti un’arteria autostradale in Pakistan e altri progetti infrastrutturali in Tajikistan e Kazakistan insieme ad altre organizzazioni multilaterali come Banca mondiale e Banca asiatica per lo sviluppo.

Dopo aver attratto decine di paesi finanziatori (esclusi Giappone e Stati Uniti), la AIIB ha aperto le sue operazioni a inizio 2016. La scorsa settimana, il presidente Jin Liqun, ex funzionario di alto livello del Ministero dell’economia cinese ed ex presidente della Asian Development Bank (ADB), ha firmato un accordo di cooperazione con la World Bank per co-finanziare dei progetti di sviluppo in Asia. Sui primi progetti in Asia centrale la AIIB coopererà anche con la ADB, organizzazione molto vicino a Tokyo e Washington. Nata per rompere il monopolio nippo-americano sullo sviluppo in Asia, almeno inizialmente la AIIB coopererà con i principali stakeholder in attesa di “mettersi in proprio”. Anche perché Washington punta il suo sguardo puntato sul nuovo istituto: l’amministrazione Obama non ha infatti tardato ad accusare il nuovo istituto di scarsa trasparenza nella «governance». Dalla AIIB hanno però risposto a stretto giro che la gestione sarà adeguata agli standard internazionali.

Libertà di stampa: il Giappone fa peggio della Tanzania

Reporter senza frontiere ha posto il Giappone al numero 72 (su 180) nel suo annuale rapporto sulla libertà di stampa nel mondo. È un risultato negativo per il Sol levante, che si piazza dietro la Tanzania, perdendo 11 posti dall’ultimo anno. Al centro delle critiche dell’ong, c’è l’amministrazione di Shinzo Abe che ha contribuito negli ultimi 4 anni a erodere la libertà di stampa nel paese, prima con una legge sui segreti di stato (che prevede fino a 5 anni di carcere per i giornalisti che diffondano informazioni “sensibili”) e poi con alcune nomine amiche al vertice della Nhk, l’emittente tv pubblica.

La notizia arriva in un periodo sono sempre più insistenti voci riguardanti pressioni del governo sulle principali emittenti televisive e quotidiani per allontanare anchor e giornalisti critici nei confronti dell’amministrazione del partito liberal-democratico. Accuse che trovano riscontro in alcuni fatti: poche settimane fa, il ministro dell’interno Sanae Takaichi ha rivendicato in aula parlamentare il diritto del governo a stabilire i criteri di imparzialità dell’informazione e chiudere programmi o emittenti televisive che non li rispettino.
Il caso del rappresentante Onu per la libertà di opinione ed espressione, David Kaye, ha avuto un’eco più ampia: per oltre quattro mesi, Kaye non è riuscito a incontrare le autorità del governo. Kaye questa settimana è tornato a sottolineare i pericoli per la libertà di stampa in Giappone e ha chiesto pubblicamente al governo di riformare la legge sulla tv e l’eliminazione dei kisha club, circoli riservati a giornalisti accreditati che agiscono da «filtro» per le notizie politiche.