In Cina e Asia – 36 nuovi miliardari in Cina nonostante la crisi

In Notizie Brevi by Sharon De Cet

Secondo l’ultimo rapporto pubblicato congiuntamente da UBS e PwC, da gennaio a luglio il numero di miliardari in Cina è salito a 415, 36 in più rispetto all’anno scorso, con una ricchezza combinata di 1,68 trilioni di dollari I miliardari cinesi rappresentano ora la metà delle persone più ricche di tutto l’Asia-Pacifico, che ospita circa 4 miliardari su 10 a livello globale. I più ricchi della Cina continentale hanno visto le loro fortune crescere del 71% dal 2018, secondo il rapporto, che sottolinea come i nuovi miliardari siano il frutto della pandemia da Covid-19. Infatti, sarebbe stata proprio l’incertezza nei mercati causata dal virus a rivelarsi redditizia per un certo numero di imprenditori in Cina, in particolare per coloro che operano nei settori della tecnologia, della sanità e dei materiali plastici. La crescita del numero di miliardari cinesi è avvenuta nonostante le crescenti tensioni tra Pechino e Washington negli ultimi due anni su vari fronti, tra cui la tecnologia, la sicurezza e l’autonomia di Hong Kong. Tuttavia, proprio ad Hong Kong il numero di miliardari sarebbe sceso quest’anno leggermente a 65, rispetto ai 67 dell’aprile 2019. La diminuzione dei miliardari dell’ex colonia britannica non avrebbe però portato ad una riduzione della ricchezza complessiva, che è invece aumentata del 14%, raggiungendo i 356,1 miliardi di dollari. Se la ricchezza collettiva dei miliardari cinesi, tra cui Jack Ma – il fondatore di Alibaba Group Holding -, il fondatore di Tencent Holdings Pony Ma Huateng ed il CEO di NetEase William Ding Lei, fosse il PIL di una nazione, esso sarebbe appena al di sotto delle dimensioni del prodotto interno lordo della Russia – l’undicesimo più grande al mondo. [fonte SCMP]

La Cina esorta il Kirghizistan a risolvere le proteste post elezione

“La Cina spera sinceramente che tutte le parti in Kirghizistan risolveranno adeguatamente i problemi attraverso il dialogo e la consultazione”. È con queste parole che la portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha commentato le proteste scatenatesi lunedì a Biskek, la capitale kirghisa, dove alcuni manifestanti hanno preso d’assalto l’edificio del parlamento e appiccato il fuoco all’ufficio del presidente Sooronbai Jeenbekov, in carica da novembre 2017, per protestare contro il dubbio esito delle legislative di domenica. La forte penetrazione economica di Pechino in Kirghizistan, unita alle preoccupazioni per la sicurezza dovuta alla prossimità del Kirghizistan con lo Xinjiang, ha reso la Cina particolarmente desiderosa di assicurare una rapida fine all’instabilità nel paese, dove la Cina è il maggior investitore ed il più grande partner commerciale, con scambi bilaterali che nel 2019 hanno raggiunto i 6,35 miliardi di dollari. L’incremento degli interessi cinesi in Kirghizistan ha già da tempo accentuato i sentimenti anticinesi nel paese: l’anno scorso, centinaia di manifestanti si erano radunati a Biskek per protestare contro la crescente influenza della Cina nel paese, in una manifestazione che aveva portato all’arresto di almeno una dozzina di persone. A questo episodio se ne aggiunge un altro del 2016, quando tre funzionari dell’ambasciata cinese a Biskek erano rimasti feriti in un attentato suicida, perpetrato, secondo il governo kirghiso, da alcuni estremisti uiguri in risposta al trattamento riservato da Pechino ai musulmani uiguri e ai membri di altri gruppi etnici minoritari nello Xinjiang, con cui il Kirghizistan condivide più di 1.000 km (620 miglia) di confine. [fonte SCMP]

Taiwan: il KMT chiede legami ufficiali con gli USA

Il Kuomintang (KMT), principale partito di opposizione di Taiwan, ha formalmente richiesto al governo della presidente Tsai Ing-wen di ristabilire i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti, che nel 1979 hanno riconosciuto ufficialmente Pechino come proprio interlocutore. La mozione è stata presentata dal KMT durante la sessione di martedì della legislatura, dove il partito ha anche chiesto al governo di rivolgersi agli Stati Uniti per far fronte alle intenzioni bellicose di Pechino, ritenute una minaccia alla sicurezza ed all’economia dell’isola. Sebbene alcuni legislatori del DPP abbiano elogiato il KMT per “aver finalmente preso la giusta direzione”, molti esperti hanno messo in dubbio i reali motivi alla base della proposta: infatti, il KMT ha tradizionalmente adottato una posizione filocinese che mal si sposa con la richiesta di una maggiore interferenza statunitense negli affari di Taipei. Interrogato sulla questione, il legislatore del KMT Chen Yu-chen ha dichiarato la proposta è stata presentata perché il ministro degli esteri di Taiwan Joseph Wu si è rifiutato di promettere di ripristinare le relazioni ufficiali con gli Stati Uniti. Wu aveva infatti specificato che Taipei – sebbene favorevole ad un più intenso scambio economico con Washington – al momento non intende stabilire alcuna relazione formale con gli USA e che l’isola possiede già tutte le capacità di difendersi da sola. Di conseguenza, secondo molti esperti la mozione del KMT sarebbe una mossa per attirarsi i favori dell’elettorato filo indipendentista taiwanese, tradizionalmente schierato dalla parte del DPP. L’audace mossa del Kuomintang potrebbe però presto rivelarsi una lama a doppio taglio: infatti, posizionandosi in modo ancora più radicale del DPP sulla questione cinese, il KMT potrebbe distanziarsi ulteriormente da Pechino, suo tradizionale alleato, e sancire così la fine del proprio ruolo di mediatore tra i due lati dello stretto. [fonte SCMP]

Il pensiero di Xi Jinping arriva nelle aule cinesi

Marx, Mao ed ora Xi Jinping. In seguito alle crescenti critiche al governo tra l’intelligentsia cinese, la Cina ha deciso di includere nelle università un corso sulla “filosofia del presidente Xi Jinping”, che si strutturerà attorno ad altri temi che già rimandano al pensiero marxista e maoista. Il corso sarà lanciato in 37 università d’élite, tra cui la Tsinghua, l’alma mater di Xi. I nuovi moduli di insegnamento si svolgeranno all’interno della Scuola di Marxismo, un’istituzione all’interno delle università controllata dal PCC, che già obbliga gli studenti a frequentare lezioni di introduzione al pensiero socialista. La visione politica di Xi, delineata per la prima volta al Congresso nazionale del PCC nel 2017 sotto il nome “Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, sostiene la crescita economica accompagnata da miglioramenti scientifici, militari e tecnologici che trasformeranno la Cina in un “grande paese moderno e socialista” quando la Repubblica popolare compirà 100 anni nel 2049. Il ritorno in auge del movimento di indottrinamento al socialismo cinese è stato accelerato da casi come quello di Xu Zhangrun e Cai Xia, professori di prestigiose università che hanno mostrato la loro insoddisfazione per l’autoritarismo e la mancanza di libertà di espressione imposta dallo Zhongnanhai, che sta incrementando i suoi sforzi di propaganda sia in luoghi come lo Xinjiang e la Mongolia Interna, sia all’interno del corpo diplomatico. [fonte NIKKEI]

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