Il volto indie dell’Asian Wave parlerà cinese?

In Cultura by Redazione

Che cos’è l’Asian Wave e cosa significa il recente successo dei Sunset Rollercoaster per la musica indie del mondo asiatico? 

Nel 2010 il critico musicale Simon Reynolds nel suo famoso saggio su musica e cultura pop “Retromania” accennava all’ “ingiapponesimento” per spiegare la deriva autocitazionista del pop occidentale di quegli anni. Nello specifico l’analisi era volta a definire la tendenza nipponica alla catalogazione sistematica del rock occidentale e della sua riproduzione pedissequa a scapito dell’originalità. Citando autori come W.David Marx e Philip K.Dick, Reynolds nello specifico parla dello Shibuya-kei, genere nato negli anni Novanta da una nuova figura di artisti-hipster che, pur mantenendo fede agli stessi principi della riproduzione ai limiti del plagio e della liberazione storico-geografica, in maniera non differente a quanto avvenuto poi negli Usa con Strokes e Vampire Weekend, puntavano alla rigenerazione culturale e all’internazionalismo. Un processo che parte da lontano ma che ha contribuito allo sviluppo, in Giappone, di una scena musicale viva, eclettica e di respiro internazionale.

Rivolgendo lo sguardo ai giorni nostri questa riflessione sembra un ottimo punto di partenza per comprendere la direzione di una tendenza musicale definibile come “Asian Wave” (termine mutuato dal cinema) e i suoi sviluppi futuri. Da un punto di vista terminologico parliamo della lenta osmosi che ha portato artisti e band asiatiche ad essere sempre più presenti sul palcoscenico mainstream della musica internazionale, conquistando spazi dove prima l’Asia era latitante, se non del tutto assente. Una sterzata importante per aumentare la propria influenza culturale in un mondo dove ciò nel 20° secolo è avvenuto quasi esclusivamente in una direzione: dall’occidente sviluppato al resto del mondo.

Gli ultimi dieci anni circa hanno visto una lenta ma progressiva inversione di tendenza, per la quale le influenze e i modelli hanno cominciato ad arrivare anche da Oriente. Nel 2012 Gangnam Style di Psy, tormentone sui generis e fortemente caricaturale, entrava nelle case, nelle auto, nei negozi a qualsiasi latitudine del globo, rimanendo per ben cinque anni in cima alle visualizzazioni su YouTube e costringendo il sito ad un ritocco a rialzo delle visualizzazioni massime. La pony dance aveva reso per la prima volta possibile l’espansione commerciale del già avviato pop coreano oltre la sfera d’influenza nazionale, raggiungendo, oltre ad Europa e Stati Uniti, anche il mercato cinese: nel 2013 Psy è stato ospite durante uno dei gala del Capodanno Cinese. Grazie a questo prezioso cavallo di Troia, il K-pop cominciava a diventare un fenomeno di risonanza sempre più globale. Dieci anni fa, chi avrebbe mai detto che avremmo visto una boy band coreana (parliamo ovviamente dei BTS) condividere con disinvoltura il palco con celebrità del calibro di Coldplay, Halsey o Nicky Minaj? Come in una nuova Beatlemania, gli idol del K-pop, operando una semplificazione estrema del linguaggio pop e coadiuvati da un apparato governativo che foraggia tale meccanismo, stanno cambiando per sempre il mercato musicale mondiale.

Se dunque la battaglia sul campo del pop vede vincitrice per distacco la Corea del Sud (sebbene il J-pop abbia una storia altrettanto lunga, non ha mai raggiunto tali vette), cosa succede nel mondo della musica indie? Il forte legame con le culture indipendenti dei paesi sinofoni ha fatto si che dagli anni Ottanta nascessero varie scene alternative parallelamente agli stili e ai contenuti imposti prima dai governi e poi dal mercato. In particolare negli ultimi anni Taiwan si sta ritagliando un suo spazio nell’Asian Wave con proposte interessanti che ricevono risposte al di sopra delle aspettative. La storia musicale dell’arcipelago, legata a doppio filo alle sue radici etniche, ha vissuto negli anni quel processo di assimilazione e rielaborazione di cui parlavamo all’inizio, fondendo topos stilistici anglosassoni ad una forte identità nazionale.

Il periodo a cavallo della pandemia ha dato il la ad una nuova generazione di musicisti. È il caso, ad esempio, dei Sunset Rollercoaster, band synyh-pop con un sound fortemente caratterizzato dall’esperienza del Jazz, e attualmente impegnata in un tour statunitense che segue quello europeo appena terminato. Le date sia europee che americane hanno segnato il tutto esaurito entro pochi giorni dalla pubblicazione, un dato inaspettato che ha costretto il management della band ad optare per venue più ampie e ad aggiungere date oltre quelle già previste. Non il primo tour mondiale per la band ma forse quello più significativo per motivi storici e culturali legati alla storia recente di Taiwan. La sovraesposizione mediatica nelle trame tra Usa e Cina, complice la recente visita di Nancy Pelosi, ha gettato l’arcipelago al centro della cronaca internazionale per settimane, dandogli una rinnovata visibilità (qui l’ebook di China Files su Taiwan).

Nella data di Lisbona a cui China Files ha partecipato, nonostante la maggioranza di spettatori di origine cinese, la presenza di tante persone del posto interessate ai suoni di una band proveniente da un epicentro così caldo stimola alcune riflessioni. L’interesse sempre maggiore fuori dai confini nazionali per le band taiwanesi è ormai un dato di fatto. Grazie ai social, quella forbice culturale e linguistica che segna la cesura con l’occidente, la stessa che oggi si allarga sempre di più in Cina, a Taiwan continua ad assottigliarsi. In un mondo che si disgrega, la musica ritorna alla sua funzione sociale, avvicinando un pubblico ormai pronto ad uscire dall’ormai scaduto patto con l’industria musicale occidentale per abbracciare sonorità e linguaggi finora rimasti nella sfera dell’esotismo ad una generazione di artisti in grado di veicolare il proprio lavoro senza sentirsi figli di un dio minore. Sebbene nei testi dei Sunset o di altre band rappresentative della scena indie taiwanese come Deca Joins, Eggplant Egg, Elephant Gym, Leo Wang ci sia poco di espressamente politico, il loro slittamento verso un contesto più internazionale ben rappresenta la lesson learned di un movimento iniziato già negli anni 80 con il city pop di Taipei e proseguito dopo la fine della legge marziale nel 1987 con i Sodagreen, No Party for Cao Dong, MayDay. Se queste band hanno la strada per un’alternativa indipendente al mercato mainstream, la nuova ondata indie ne ha massimizzato gli sforzi arricchendone la trama con elementi nuovi: lingua inglese, mood malinconici, atmosfere retrofuturistiche e un mélange di sonorità che spazia dal funk alla disco. Un prodotto nuovo e appetibile anche per chi è a digiuno di cultura orientale.

Per il futuro si aprono scenari interessanti: è lecito ipotizzare che lo straordinario successo del tour dei Sunset Rollercoaster possa incentivare l’emulazione di altri artisti simili, che a loro volta troveranno terreno fertile in locali europei e statunitensi che, dopo il tutto esaurito registrato, sono meglio predisposti nei confronti di determinate band. Una maggiore presenza fisica nei paesi occidentali sarebbe potenzialmente un ottimo volano per spostare l’asse dell’Asian Wave verso band di lingua cinese.

Di Stefano Capolongo e Livio Di Salvatore