Il Tibet che fu

In by Simone

Sam van Schaik conduce il lettore nel cuore del Tibet, dal VII secolo, periodo di gloria dell’impero tibetano, fino ai giorni nostri, analizzando la nascita del buddhismo tibetano, l’ascesa del Dalai Lama, le mire di Inghilterra e Russia – entrambe potenze colonialiste confinanti col Tibet – fino ad arrivare alla rivoluzione del 1911.  China Files ve ne regala un estratto (per gentie concessione di Longanesi editore).
Nell’inverno del 763, nel grande impero Tang della Cina un giorno accadde l’impensabile: un’armata nemica cavalcò vittoriosa per le vie della capitale Chang’an. L’esercito era composto da tibetani, un popolo di cui, appena un secolo prima, la maggior parte dei cinesi non aveva nemmeno sentito parlare. Chang’an non era solo la dimora dell’imperatore e della sua corte, ma una città di cultura famosa in tutta l’Asia, le cui strade erano affollate da mercanti, musicisti, monaci e ufficiali che si dedicavano ai loro affari quotidiani.

L’imperatore cinese
aveva la prerogativa di giudicare barbarico tutto ciò che non faceva parte del proprio regno, e probabilmente a Chang’an la sua opinione sarebbe stata condivisa. Tuttavia, la conquista tibetana non fu semplicemente un feroce attacco barbarico. Per prima cosa, i tibetani, per poter affrontare fuori dalla capitale il generale cinese e la sua armata, li attirarono nelle province occidentali, poi all’improvviso, ma troppo tardi, i cinesi realizzarono che sulla capitale anche da est marciavano gli alleati del nemico.

L’imperatore fuggì, lasciando Chang’an priva sia del proprio esercito sia della corte imperiale e i tibetani ebbero l’opportunità di impossessarsi della città prima del ritorno dell’armata cinese. Ciò fu possibile perché una fazione si sollevò contro la cortee passò dalla parte degli invasori: un ribelle spalancò le porte della città e i tibetani poterono marciare nella capitale incontrastati. I tibetani non avevano l’ambizione di stabilire un governo a Chang’an. Ricompensarono invece i ribelli cinesi ponendo sul trono imperiale il loro leader che nell’arco di alcuni giorni nominò un governo e proclamò una nuova dinastia. Nel frattempo, completamente demoralizzato dalla codardia dell’ex imperatore, l’esercito cinese si sfaldò.

Gli storici cinesi narrano che in tale terribile situazione l’imperatore, detronizzato, fu lasciato ad «arrancare nella polvere», mentre l’esercito imperiale si frammentò in bande armate che vagavano e saccheggiavano le campagne. In realtà i tibetani non avevano nessun desiderio di trasformare in ordine questa confusione: in altre parole, non erano interessati a governare la Cina. Posto sul trono un loro imperatore fantoccio, lasciarono la città, qualcuno dice perché un grande esercito cinese avanzava da sud.

Un generale cinese era infatti in avvicinamento, ma a capo di un’armata eterogenea che contava solamente un migliaio di uomini o poco più. Quando giunse a Chang’an vi trovò solo un residuo dell’esercito tibetano e sul trono un imperatore piuttosto spaventato. Essendo l’armata molto poco imponente, il generale diede ordine di entrare in città al rullo dei tamburi, per rendere noto agli abitanti che il vecchio ordine era stato ristabilito. Ma quando, subito dopo, l’imperatore Tang fece ritorno, il suo impero si era ridotto di molto. Infatti, per quanto non amassero l’idea di governare dal trono imperiale, i tibetani fissarono il confine solo a qualche centinaio di chilometri a ovest di Chang’an, costringendo inoltre l’imperatore cinese a una serie di trattati di pace che isolarono la Cina dall’Occidente.

Per comprendere come i tibetani giunsero a costituire una simile minaccia per la Cina dobbiamo tornare indietro di un secolo, quando un re, che si diceva «figlio degli dei», fu in grado di sfruttare il potere dei clan guerrieri del Tibet e di volgerlo all’esterno. Come in un’esplosione di energia, questo re travolse ogni cosa: fu così che comparve il Tibet. Al suo centro si trovava un uomo con il carisma della divinità, Songtsen Gampo, il Figlio divino

* Sam van Schaik  è un esperto di storia antica del Tibet e di buddhismo tibetano; si è occupato di paleografia tibetana e di tradurre antichi manoscritti tantrici tibetani. La sua tesi di dottorato è stata premiata dal dipartimento di Religioni e Teologia dell’Università di Manchester. Lavora presso la British Library di Londra, dove collabora al progetto internazionale Dunhuang.